venerdì 25 giugno 2010
Buio e luce
Mi sentivo solo…Solo.
Solo nella casa del buio.
Solo come nessuno.
Avevo vissuto fino allora? Quella che vedevo voltandomi indietro era vita? Non avevo amato.
Non avevo mai …amato.
Piansi incapace di fare altro. Vigliacco. Avevo visto l’amore…nei suoi occhi…quella luce più forte di ogni altra…di qualsiasi luce elettrica…di qualunque sole. Quello era dunque l’amore? Bruciare in quella luce. Ora capivo perché il buio regnava…in quelle stanze. Per alleviare il dolore…per dare pace. Lui si era rifugiato nel buio…perché orami aveva perso la sua luce e qualsiasi termine di paragone lo avrebbe fatto soffrire...
Solo nella casa del buio.
Solo come nessuno.
Avevo vissuto fino allora? Quella che vedevo voltandomi indietro era vita? Non avevo amato.
Non avevo mai …amato.
Piansi incapace di fare altro. Vigliacco. Avevo visto l’amore…nei suoi occhi…quella luce più forte di ogni altra…di qualsiasi luce elettrica…di qualunque sole. Quello era dunque l’amore? Bruciare in quella luce. Ora capivo perché il buio regnava…in quelle stanze. Per alleviare il dolore…per dare pace. Lui si era rifugiato nel buio…perché orami aveva perso la sua luce e qualsiasi termine di paragone lo avrebbe fatto soffrire...
giovedì 24 giugno 2010
Orfeo e Calais (Fanocle)
Fanocle fa parte del gruppo di poeti ellenistici di ambiente alessandrino dediti al genere elegiaco.
Della sua opera ci restano solo frammenti, che ci permettono comunque di conoscere l'argomento almeno di alcune elegie: il frammento 1 Powell, il più lungo (28 versi), faceva parte di un componimento sull'amore tra Orfeo e Calais.
È incentrato su un doppio àition: infatti a quello principale, che vuole spiegare l'usanza dei Traci di marchiare le loro donne, se ne collega un altro, che intende spiegare il motivo della così particolare predilezione dell'isola di Lesbo per la musica.
L'elegia si apre con Orfeo che si strugge per Calais figlio di Borea, sedendo nei boschi della Tracia e cantando il suo amore; le donne tracie però a un tratto lo circondano e lo aggrediscono per ucciderlo; non possono sopportare che lui disdegni così le donne e lo accusano di aver introdotto tra i Traci gli amori maschili. Ne fanno a pezzi il corpo e tagliatagli la testa la fissano con un chiodo alla sua lira e la gettano in mare. Così le correnti portano la testa di Orfeo a Lesbo, e i Lesbi la seppelliscono ponendo la lira sopra al tumulo; in questo modo la musica soave di Orfeo permea per sempre l'isola, da allora vocata alle arti del canto e della lira. I Traci, conosciuto il terribile delitto delle loro donne, le marchiano, perché portino per sempre il ricordo di quella colpa.
Il componimento è permeato da una diffusa atmosfera di pathos, di compassione per l'infelicità dell'amore di Orfeo, e per l'assoluta ingiustizia della sua orribile fine. Appare chiaramente confutabile, almeno in questa elegia, l'interpretazione critica che vedeva in Fanocle una condanna dell'omosessualità.
Testo dell'elegia 1
"O come il figlio di Oiagro, il tracio Orfeo
amava di cuore Calais figlio di Borea,
e spesso nei boschi ombrosi sedeva cantando
il suo amore, e il cuore non aveva pace,
ma sempre insonni pene nell'animo
lo tormentavano guardando il fiorente Calais.
ma lui le Bistonidi malvagie circondarono e
uccisero avendo aguzzato le taglienti spade,
poiché primo aveva mostrato fra i Traci gli amori
maschili e non apprezzava gli amori delle donne.
e col bronzo gli staccarono il capo, e poi
nel mare tracio lo gettarono con la lira
fissata con un chiodo, affinché fossero trascinati dal mare
entrambi insieme, bagnati dai lucenti flutti.
e il canuto mare li spinse alla sacra Lesbo:
e un suono come di armoniosa lira tenne il mare
e le isole e i lidi marini, dove la melodiosa
testa di Orfeo gli uomini seppellirono,
e sul tumulo l'arguta cetra posero, che anche i muti
sassi persuadeva e l'odiosa acqua di Forco.
da allora i canti e l'amabile arte della cetra
tengono l'isola, e di tutte è la più canora.
e come i bellicosi Traci appresero il crudele atto
delle donne e a tutti venne grande dolore,
le mogli marchiarono, perché sul corpo portando il segno
livido non dimenticassero l'odioso delitto.
e la pena per Orfeo ucciso pagano le donne
ancora adesso a causa di quella colpa."
(Fanocle, fr. 1 Powell)
Della sua opera ci restano solo frammenti, che ci permettono comunque di conoscere l'argomento almeno di alcune elegie: il frammento 1 Powell, il più lungo (28 versi), faceva parte di un componimento sull'amore tra Orfeo e Calais.
È incentrato su un doppio àition: infatti a quello principale, che vuole spiegare l'usanza dei Traci di marchiare le loro donne, se ne collega un altro, che intende spiegare il motivo della così particolare predilezione dell'isola di Lesbo per la musica.
L'elegia si apre con Orfeo che si strugge per Calais figlio di Borea, sedendo nei boschi della Tracia e cantando il suo amore; le donne tracie però a un tratto lo circondano e lo aggrediscono per ucciderlo; non possono sopportare che lui disdegni così le donne e lo accusano di aver introdotto tra i Traci gli amori maschili. Ne fanno a pezzi il corpo e tagliatagli la testa la fissano con un chiodo alla sua lira e la gettano in mare. Così le correnti portano la testa di Orfeo a Lesbo, e i Lesbi la seppelliscono ponendo la lira sopra al tumulo; in questo modo la musica soave di Orfeo permea per sempre l'isola, da allora vocata alle arti del canto e della lira. I Traci, conosciuto il terribile delitto delle loro donne, le marchiano, perché portino per sempre il ricordo di quella colpa.
Il componimento è permeato da una diffusa atmosfera di pathos, di compassione per l'infelicità dell'amore di Orfeo, e per l'assoluta ingiustizia della sua orribile fine. Appare chiaramente confutabile, almeno in questa elegia, l'interpretazione critica che vedeva in Fanocle una condanna dell'omosessualità.
Testo dell'elegia 1
"O come il figlio di Oiagro, il tracio Orfeo
amava di cuore Calais figlio di Borea,
e spesso nei boschi ombrosi sedeva cantando
il suo amore, e il cuore non aveva pace,
ma sempre insonni pene nell'animo
lo tormentavano guardando il fiorente Calais.
ma lui le Bistonidi malvagie circondarono e
uccisero avendo aguzzato le taglienti spade,
poiché primo aveva mostrato fra i Traci gli amori
maschili e non apprezzava gli amori delle donne.
e col bronzo gli staccarono il capo, e poi
nel mare tracio lo gettarono con la lira
fissata con un chiodo, affinché fossero trascinati dal mare
entrambi insieme, bagnati dai lucenti flutti.
e il canuto mare li spinse alla sacra Lesbo:
e un suono come di armoniosa lira tenne il mare
e le isole e i lidi marini, dove la melodiosa
testa di Orfeo gli uomini seppellirono,
e sul tumulo l'arguta cetra posero, che anche i muti
sassi persuadeva e l'odiosa acqua di Forco.
da allora i canti e l'amabile arte della cetra
tengono l'isola, e di tutte è la più canora.
e come i bellicosi Traci appresero il crudele atto
delle donne e a tutti venne grande dolore,
le mogli marchiarono, perché sul corpo portando il segno
livido non dimenticassero l'odioso delitto.
e la pena per Orfeo ucciso pagano le donne
ancora adesso a causa di quella colpa."
(Fanocle, fr. 1 Powell)
Orfeo ed Euridice (Ovidio, Metamorfosi, X, 1-77)
Di lì, avvolto nel suo mantello dorato, se ne andò Imeneo
per l’etere infinito, dirigendosi verso la terra
dei Cìconi, dove la voce di Orfeo lo invocava invano.
Invano, sì, perché il dio venne, ma senza le parole di rito,
senza letizia in volto, senza presagi propizi.
Persino la fiaccola che impugnava sprigionò soltanto fumo,
provocando lacrime, e, per quanto agitata, non levò mai fiamme.
Presagio infausto di peggiore evento: la giovane sposa,
mentre tra i prati vagava in compagnia d’uno stuolo
di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente.
A lungo sotto la volta del cielo la pianse il poeta
del Ròdope, ma per saggiare anche il mondo dei morti,
non esitò a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro:
tra folle irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse
alla presenza di Persefone e del signore che regge
lo squallido regno dei morti. Intonando al canto le corde
della lira, così disse: «O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi,
dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire,
se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi
di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare
le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,
irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa.
Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,
in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.
Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:
ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;
se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:
se non è inventata la novella di quell’antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi,
per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno,
vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!
Tutto vi dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra,
presto o tardi tutti precipitiamo in quest’unico luogo.
Qui tutti noi siamo diretti; questa è l’ultima dimora, e qui
sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.
Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto
il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.
Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo:
io non me ne andrò: della morte d’entrambi godrete!».
Mentre così si esprimeva, accompagnato dal suono della lira,
le anime esangui piangevano; Tantalo tralasciò d’afferrare
l’acqua che gli sfuggiva, la ruota d’Issìone s’arrestò stupita,
gli avvoltoi più non rosero il fegato a Tizio, deposero l’urna
le nipoti di Belo e tu, Sisifo, sedesti sul tuo macigno.
Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta
si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore,
regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera,
e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava,
e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.
Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine
di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.
In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.
E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell’Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata,
ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.
Rimase impietrito Orfeo per la doppia morte della moglie,
così come colui che fu terrorizzato nel vedere Cerbero
con la testa di mezzo incatenata, e il cui terrore non cessò
finché dall’avita natura il suo corpo non fu mutato in pietra;
o come Oleno che si addossò la colpa e volle
passare per reo; o te, sventurata Letea, troppo innamorata
della tua bellezza: cuori indivisi un tempo nell’amore,
ora soltanto rocce che si ergono tra i ruscelli dell’Ida.
Invano Orfeo scongiurò Caronte di traghettarlo un’altra volta:
il nocchiero lo scacciò. Per sette giorni rimase lì
accasciato sulla riva, senza toccare alcun dono di Cerere:
dolore, angoscia e lacrime furono il suo unico cibo.
Poi, dopo aver maledetto la crudeltà dei numi dell’Averno,
si ritirò sull’alto Ròdope e sull’Emo battuto dai venti.
per l’etere infinito, dirigendosi verso la terra
dei Cìconi, dove la voce di Orfeo lo invocava invano.
Invano, sì, perché il dio venne, ma senza le parole di rito,
senza letizia in volto, senza presagi propizi.
Persino la fiaccola che impugnava sprigionò soltanto fumo,
provocando lacrime, e, per quanto agitata, non levò mai fiamme.
Presagio infausto di peggiore evento: la giovane sposa,
mentre tra i prati vagava in compagnia d’uno stuolo
di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente.
A lungo sotto la volta del cielo la pianse il poeta
del Ròdope, ma per saggiare anche il mondo dei morti,
non esitò a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro:
tra folle irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse
alla presenza di Persefone e del signore che regge
lo squallido regno dei morti. Intonando al canto le corde
della lira, così disse: «O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi,
dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire,
se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi
di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare
le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,
irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa.
Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,
in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.
Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:
ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;
se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:
se non è inventata la novella di quell’antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi,
per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno,
vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!
Tutto vi dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra,
presto o tardi tutti precipitiamo in quest’unico luogo.
Qui tutti noi siamo diretti; questa è l’ultima dimora, e qui
sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.
Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto
il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.
Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo:
io non me ne andrò: della morte d’entrambi godrete!».
Mentre così si esprimeva, accompagnato dal suono della lira,
le anime esangui piangevano; Tantalo tralasciò d’afferrare
l’acqua che gli sfuggiva, la ruota d’Issìone s’arrestò stupita,
gli avvoltoi più non rosero il fegato a Tizio, deposero l’urna
le nipoti di Belo e tu, Sisifo, sedesti sul tuo macigno.
Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta
si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore,
regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera,
e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava,
e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.
Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine
di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.
In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.
E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell’Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata,
ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.
Rimase impietrito Orfeo per la doppia morte della moglie,
così come colui che fu terrorizzato nel vedere Cerbero
con la testa di mezzo incatenata, e il cui terrore non cessò
finché dall’avita natura il suo corpo non fu mutato in pietra;
o come Oleno che si addossò la colpa e volle
passare per reo; o te, sventurata Letea, troppo innamorata
della tua bellezza: cuori indivisi un tempo nell’amore,
ora soltanto rocce che si ergono tra i ruscelli dell’Ida.
Invano Orfeo scongiurò Caronte di traghettarlo un’altra volta:
il nocchiero lo scacciò. Per sette giorni rimase lì
accasciato sulla riva, senza toccare alcun dono di Cerere:
dolore, angoscia e lacrime furono il suo unico cibo.
Poi, dopo aver maledetto la crudeltà dei numi dell’Averno,
si ritirò sull’alto Ròdope e sull’Emo battuto dai venti.
Virgilio, Orfeo ed Euridice (Georgiche, dal libro IV)
'nam quis te, iuuenum confidentissime, nostras 445
iussit adire domos? quidue hinc petis?' inquit. at ille:
'scis, Proteu, scis ipse, neque est te fallere quicquam:
sed tu desine uelle. deum praecepta secuti
uenimus hinc lassis quaesitum oracula rebus.'
tantum effatus. ad haec uates ui denique multa 450
ardentis oculos intorsit lumine glauco,
et grauiter frendens sic fatis ora resoluit:
'Non te nullius exercent numinis irae;
magna luis commissa: tibi has miserabilis Orpheus
haudquaquam ob meritum poenas, ni fata resistant, 455
suscitat, et rapta grauiter pro coniuge saeuit.
illa quidem, dum te fugeret per flumina praeceps,
immanem ante pedes hydrum moritura puella
seruantem ripas alta non uidit in herba.
at chorus aequalis Dryadum clamore supremos 460
impleuit montis; flerunt Rhodopeiae arces
altaque Pangaea et Rhesi Mauortia tellus
atque Getae atque Hebrus et Actias Orithyia.
ipse caua solans aegrum testudine amorem
te, dulcis coniunx, te solo in litore secum, 465
te ueniente die, te decedente canebat.
Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
et caligantem nigra formidine lucum
ingressus, Manisque adiit regemque tremendum
nesciaque humanis precibus mansuescere corda. 470
at cantu commotae Erebi de sedibus imis
umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
quam multa in foliis auium se milia condunt,
Vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
matres atque uiri defunctaque corpora uita 475
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuuenes ante ora parentum,
quos circum limus niger et deformis harundo
Cocyti tardaque palus inamabilis unda
alligat et nouies Styx interfusa coercet. 480
quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
Tartara caeruleosque implexae crinibus anguis
Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora,
atque Ixionii uento rota constitit orbis.
iamque pedem referens casus euaserat omnis, 485
redditaque Eurydice superas ueniebat ad auras
pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem),
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes:
restitit, Eurydicenque suam iam luce sub ipsa 490
immemor heu! uictusque animi respexit. ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera, terque fragor stagnis auditus Auernis.
illa “quis et me” inquit “miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? en iterum crudelia retro 495
fata uocant, conditque natantia lumina somnus.
iamque uale: feror ingenti circumdata nocte
inualidasque tibi tendens, heu non tua, palmas.”
dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenuis, fugit diuersa, neque illum 500
prensantem nequiquam umbras et multa uolentem
dicere praeterea uidit; nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.
quid faceret? quo se rapta bis coniuge ferret?
quo fletu Manis, quae numina uoce moueret? 505
illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.
septem illum totos perhibent ex ordine mensis
rupe sub aëria deserti ad Strymonis undam
flesse sibi, et gelidis haec euoluisse sub antris
mulcentem tigris et agentem carmine quercus: 510
qualis populea maerens philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
obseruans nido implumis detraxit; at illa
flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
integrat, et maestis late loca questibus implet. 515
nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei:
solus Hyperboreas glacies Tanaimque niualem
aruaque Riphaeis numquam uiduata pruinis
lustrabat, raptam Eurydicen atque inrita Ditis
dona querens. spretae Ciconum quo munere matres 520
inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi
discerptum latos iuuenem sparsere per agros.
tum quoque marmorea caput a ceruice reuulsum
gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
uolueret, Eurydicen uox ipsa et frigida lingua, 525
a miseram Eurydicen! anima fugiente uocabat:
Eurydicen toto referebant flumine ripae.'
Haec Proteus, et se iactu dedit aequor in altum,
quaque dedit, spumantem undam sub uertice torsit.
at non Cyrene, namque ultro adfata timentem: 530
'nate, licet tristis animo deponere curas.
haec omnis morbi causa, hinc miserabile Nymphae,
cum quibus illa choros lucis agitabat in altis,
exitium misere apibus. tu munera supplex
tende petens pacem, et facilis uenerare Napaeas; 535
namque dabunt ueniam uotis, irasque remittent.
sed modus orandi qui sit prius ordine dicam:
quattuor eximios praestanti corpore tauros,
qui tibi nunc uiridis depascunt summa Lycaei,
delige, et intacta totidem ceruice iuuencas. 540
quattuor his aras alta ad delubra dearum
constitue, et sacrum iugulis demitte cruorem,
corporaque ipsa boum frondoso desere luco.
post, ubi nona suos Aurora ostenderit ortus,
inferias Orphei Lethaea papauera mittes 545
et nigram mactabis ouem, lucumque reuises;
placatam Eurydicen uitula uenerabere caesa.'
haud mora, continuo matris praecepta facessit:
ad delubra uenit, monstratas excitat aras,
quattuor eximios praestanti corpore tauros 550
ducit et intacta totidem ceruice iuuencas.
post, ubi nona suos Aurora induxerat ortus,
inferias Orphei mittit, lucumque reuisit.
hic uero subitum ac dictu mirabile monstrum
aspiciunt, liquefacta boum per uiscera toto 555
stridere apes utero et ruptis efferuere costis,
immensasque trahi nubes, iamque arbore summa
confluere et lentis uuam demittere ramis.
Haec super aruorum cultu pecorumque canebam
et super arboribus, Caesar dum magnus ad altum 560
fulminat Euphraten bello uictorque uolentis
per populos dat iura uiamque adfectat Olympo.
illo Vergilium me tempore dulcis alebat
Parthenope studiis florentem ignobilis oti,
carmina qui lusi pastorum audaxque iuuenta, 565
Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi.
'Chi, chi mai ti spinse, giovane audace, / a venire da me? e qui cosa cerchi?'
'Ma tu lo sai, Pròteo, lo sai', rispose, / non è possibile ingannarti;
cessa tu di volerlo fare. / Seguendo ordini divini, / qui vengo a chiedere presagi per la mia sventura'. / Questo disse, e a queste parole, esasperato, / l'indovino torse gli occhi in un balenio di verde / e digrignando a forza i denti, / schiuse le labbra al futuro:
'Certo, l'ira di un nume ti perseguita; / colpe gravi tu sconti.
Contro di te, se il fato non si oppone, / Orfeo, senza volerlo infelice, / provoca il tuo castigo
e si accanisce per la perdita della sua sposa.
Correndo a perdifiato lungo un fiume, / Euridice, ormai segnata dalla morte, / per sfuggirti, non vide il serpente mostruoso
appostato tra l'erba folta sulla riva.
E il coro delle ninfe sue compagne / riempì di lamenti i monti più alti; / piansero le cime del Ròdope,
gli alti Pangei, / la terra guerriera di Reso,
piansero i Geti, l'Ebro, l'attica Oritía.
E Orfeo, cercando nella cetra conforto / all'amore perduto,
solo te, dolce sposa, solo te / sulla spiaggia deserta,
solo te cantava al nascere e al morire del giorno.
Poi, entrato nelle gole del Tènaro, / il varco profondo di Dite,
e nella selva dove fra le tenebre / si addensa la paura,
si avvicinò ai Mani e al loro re tremendo,
a chi non si addolcisce alle preghiere umane.
E dai luoghi più profondi dell'Èrebo, / commosse dal suo canto,
venivano leggere / le ombre, immagini opache dei morti:
a migliaia, / come si posano gli uccelli tra le foglie,
quando la sera o la pioggia d'inverno / dai monti li allontana;
donne, uomini, e ormai privi di vita, / corpi di eroi generosi, / e bambini, fanciulle senza amore / e giovani arsi sul rogo
davanti ai genitori:
ora il fango nero, il canneto orrendo del Cocito / e una palude ripugnante / con le sue acque pigre li circonda
e con nove giri lo Stige li rinserra. / Sino al cuore del Tartaro,
alle dimore della morte,
sino alle Eumenidi / dai capelli intrecciati con livide serpi
dilagò lo stupore; / muto con le tre bocche spalancate
rimase Cerbero / e insieme al vento
si arrestò la ruota di Issione. / Ma già Orfeo, eluso ogni pericolo,
tornava sui suoi passi / e libera Euridice
saliva a rivedere il cielo, / seguendolo alle spalle, / come Proserpina ordinava, / quando senza rimedio / una follia improvvisa lo travolse, / perdonabile, certo, / se sapessero i Mani perdonare: / fermo, ormai vicino alla luce, / vinto da amore, / la sua Euridice si voltò incantato a guardare. / Così gettata al vento la fatica, / infranta la legge del tiranno spietato, / tre volte si udì un fragore / nelle paludi dell'Averno.
E lei: 'Ahimè, Orfeo, / chi ci ha perduti, / quale follia?
Senza pietà il destino indietro mi richiama
e un sonno vela di morte i miei occhi smarriti.
E ora addio: intorno una notte fonda mi assorbe
e a te, non più tua, inerti tendo le mani'.
Disse e d'improvviso svanì nel nulla, / come fumo che si dissolve alla brezza dell'aria, / e non poté vederlo
mentre con la voglia inesausta di parlarle
abbracciava invano le ombre; / ma il nocchiero dell'Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude.
Che fare? Dove andarsene, perduta ormai, / perduta la sua sposa?
Con che pianto commuovere le ombre, / con che voce gli dei?
Certo, ormai fredda / lei navigava sulla barca dello Stige.
Dicono che per sette mesi / Orfeo piangesse senza requie
sotto una rupe a picco / sulla riva deserta dello Strímone,
e che narrasse le sue pene / sotto il gelo delle stelle,
ammansendo le tigri / e trascinando col canto le querce.
Così afflitto l'usignolo / lamenta nell'ombra di un pioppo la perdita dei figli, / che un bifolco crudele
con l'insidia ha tolto implumi dal nido; / piangendo nella notte,
ripete da un ramo il suo canto desolato / e riempie ogni luogo intorno / con la malinconia del suo lamento.
Nessun amore, / nessuna lusinga di nozze / gli piegarono il cuore.
Solo se ne andò tra i ghiacci del nord / e le nevi del Tànai,
sui monti di Tracia oppressi dal gelo eterno,
lamentando la morte di Euridice, / il dono inutile di Dite.
E le donne dei Cíconi offese da quel rimpianto,
durante le orge notturne dei riti di Bacco,
dispersero nei campi le sue membra dilaniate.
Ma anche allora, quando in mezzo ai gorghi
l'Ebro trascinava sull'onda / il capo spiccato dal suo collo d'avorio, / la voce ormai rappresa nella gola
'Euridice' chiamava, mentre l'anima fuggiva, / 'o misera Euridice'. E lungo tutto il fiume / le rive ripetevano 'Euridice'.
Questo disse Pròteo, e con un balzo / s'inabissò nel mare,
e là dove s'immerse / l'acqua girò in vortici di spuma.
Immobile al suo fianco, / Cirene si rivolse al figlio sbigottito:
'Figlio mio, sgombra la mente dai tristi pensieri.
Qui sta la causa d'ogni male, / per ciò le ninfe (e con loro Euridice / intrecciava danze nel segreto dei boschi)
mandarono alle api quello scempio. / Con umiltà, chiedendo pace, / offrigli doni e prega le Napee pietose:
ai voti concederanno il perdono / e deporranno l'ira.
Ma prima ti rivelerò il modo di pregarle.
Scegli fra tutti i tuoi, / che pascolano sulla cima verde del Liceo,
quattro tori dal corpo vigoroso, / i migliori, e altrettante giovenche / ancora non domate.
Alza per loro quattro are / vicino ai santuari delle dee
e dalle gole fa sgorgare il sangue sacro,
abbandonando i loro corpi nel folto del bosco.
Poi, al sorgere della nona aurora, / offri ad Orfeo, come dono funebre, / papaveri del Lete
e sacrifica una pecora nera; / torna quindi nel bosco,
e ad Euridice ormai placata / renderai onore immolando una giovenca'. Senza indugio Aristeo / segue i consigli della madre:
va al santuario, alza le are prescritte, / vi conduce quattro tori dal corpo vigoroso, / i migliori, e altrettante giovenche
ancora non domate;
poi al sorgere della nona aurora, / offre il dono funebre ad Orfeo e torna nel bosco.
E qui d'improvviso un prodigio incredibile appare: / fra le viscere disfatte degli animali / per tutto il ventre ronzano le api,
brulicando dai fianchi aperti, / in nugoli immensi ne escono
e, raccogliendosi sulla cima di un albero,
pendono a grappoli dalla curva dei rami.
Questo cantavo sulla pratica dei campi, / degli animali e intorno agli alberi, / mentre lontano sulle rive dell'Eufrate, / il grande Cesare folgora in guerra / e vincitore detta leggi ai popoli in attesa, / aprendosi la strada dell'Olimpo. / Vivevo allora nell'incanto di Partenope, / coltivando il piacere
di starmene in disparte, / io, Virgilio, io, che sul ritmo dei pastori
ho improvvisato, / cantando, con l'ardire della giovinezza,
Títiro all'ombra accogliente di un faggio.
iussit adire domos? quidue hinc petis?' inquit. at ille:
'scis, Proteu, scis ipse, neque est te fallere quicquam:
sed tu desine uelle. deum praecepta secuti
uenimus hinc lassis quaesitum oracula rebus.'
tantum effatus. ad haec uates ui denique multa 450
ardentis oculos intorsit lumine glauco,
et grauiter frendens sic fatis ora resoluit:
'Non te nullius exercent numinis irae;
magna luis commissa: tibi has miserabilis Orpheus
haudquaquam ob meritum poenas, ni fata resistant, 455
suscitat, et rapta grauiter pro coniuge saeuit.
illa quidem, dum te fugeret per flumina praeceps,
immanem ante pedes hydrum moritura puella
seruantem ripas alta non uidit in herba.
at chorus aequalis Dryadum clamore supremos 460
impleuit montis; flerunt Rhodopeiae arces
altaque Pangaea et Rhesi Mauortia tellus
atque Getae atque Hebrus et Actias Orithyia.
ipse caua solans aegrum testudine amorem
te, dulcis coniunx, te solo in litore secum, 465
te ueniente die, te decedente canebat.
Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
et caligantem nigra formidine lucum
ingressus, Manisque adiit regemque tremendum
nesciaque humanis precibus mansuescere corda. 470
at cantu commotae Erebi de sedibus imis
umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
quam multa in foliis auium se milia condunt,
Vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
matres atque uiri defunctaque corpora uita 475
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuuenes ante ora parentum,
quos circum limus niger et deformis harundo
Cocyti tardaque palus inamabilis unda
alligat et nouies Styx interfusa coercet. 480
quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
Tartara caeruleosque implexae crinibus anguis
Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora,
atque Ixionii uento rota constitit orbis.
iamque pedem referens casus euaserat omnis, 485
redditaque Eurydice superas ueniebat ad auras
pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem),
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes:
restitit, Eurydicenque suam iam luce sub ipsa 490
immemor heu! uictusque animi respexit. ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera, terque fragor stagnis auditus Auernis.
illa “quis et me” inquit “miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? en iterum crudelia retro 495
fata uocant, conditque natantia lumina somnus.
iamque uale: feror ingenti circumdata nocte
inualidasque tibi tendens, heu non tua, palmas.”
dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenuis, fugit diuersa, neque illum 500
prensantem nequiquam umbras et multa uolentem
dicere praeterea uidit; nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.
quid faceret? quo se rapta bis coniuge ferret?
quo fletu Manis, quae numina uoce moueret? 505
illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.
septem illum totos perhibent ex ordine mensis
rupe sub aëria deserti ad Strymonis undam
flesse sibi, et gelidis haec euoluisse sub antris
mulcentem tigris et agentem carmine quercus: 510
qualis populea maerens philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
obseruans nido implumis detraxit; at illa
flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
integrat, et maestis late loca questibus implet. 515
nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei:
solus Hyperboreas glacies Tanaimque niualem
aruaque Riphaeis numquam uiduata pruinis
lustrabat, raptam Eurydicen atque inrita Ditis
dona querens. spretae Ciconum quo munere matres 520
inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi
discerptum latos iuuenem sparsere per agros.
tum quoque marmorea caput a ceruice reuulsum
gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
uolueret, Eurydicen uox ipsa et frigida lingua, 525
a miseram Eurydicen! anima fugiente uocabat:
Eurydicen toto referebant flumine ripae.'
Haec Proteus, et se iactu dedit aequor in altum,
quaque dedit, spumantem undam sub uertice torsit.
at non Cyrene, namque ultro adfata timentem: 530
'nate, licet tristis animo deponere curas.
haec omnis morbi causa, hinc miserabile Nymphae,
cum quibus illa choros lucis agitabat in altis,
exitium misere apibus. tu munera supplex
tende petens pacem, et facilis uenerare Napaeas; 535
namque dabunt ueniam uotis, irasque remittent.
sed modus orandi qui sit prius ordine dicam:
quattuor eximios praestanti corpore tauros,
qui tibi nunc uiridis depascunt summa Lycaei,
delige, et intacta totidem ceruice iuuencas. 540
quattuor his aras alta ad delubra dearum
constitue, et sacrum iugulis demitte cruorem,
corporaque ipsa boum frondoso desere luco.
post, ubi nona suos Aurora ostenderit ortus,
inferias Orphei Lethaea papauera mittes 545
et nigram mactabis ouem, lucumque reuises;
placatam Eurydicen uitula uenerabere caesa.'
haud mora, continuo matris praecepta facessit:
ad delubra uenit, monstratas excitat aras,
quattuor eximios praestanti corpore tauros 550
ducit et intacta totidem ceruice iuuencas.
post, ubi nona suos Aurora induxerat ortus,
inferias Orphei mittit, lucumque reuisit.
hic uero subitum ac dictu mirabile monstrum
aspiciunt, liquefacta boum per uiscera toto 555
stridere apes utero et ruptis efferuere costis,
immensasque trahi nubes, iamque arbore summa
confluere et lentis uuam demittere ramis.
Haec super aruorum cultu pecorumque canebam
et super arboribus, Caesar dum magnus ad altum 560
fulminat Euphraten bello uictorque uolentis
per populos dat iura uiamque adfectat Olympo.
illo Vergilium me tempore dulcis alebat
Parthenope studiis florentem ignobilis oti,
carmina qui lusi pastorum audaxque iuuenta, 565
Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi.
'Chi, chi mai ti spinse, giovane audace, / a venire da me? e qui cosa cerchi?'
'Ma tu lo sai, Pròteo, lo sai', rispose, / non è possibile ingannarti;
cessa tu di volerlo fare. / Seguendo ordini divini, / qui vengo a chiedere presagi per la mia sventura'. / Questo disse, e a queste parole, esasperato, / l'indovino torse gli occhi in un balenio di verde / e digrignando a forza i denti, / schiuse le labbra al futuro:
'Certo, l'ira di un nume ti perseguita; / colpe gravi tu sconti.
Contro di te, se il fato non si oppone, / Orfeo, senza volerlo infelice, / provoca il tuo castigo
e si accanisce per la perdita della sua sposa.
Correndo a perdifiato lungo un fiume, / Euridice, ormai segnata dalla morte, / per sfuggirti, non vide il serpente mostruoso
appostato tra l'erba folta sulla riva.
E il coro delle ninfe sue compagne / riempì di lamenti i monti più alti; / piansero le cime del Ròdope,
gli alti Pangei, / la terra guerriera di Reso,
piansero i Geti, l'Ebro, l'attica Oritía.
E Orfeo, cercando nella cetra conforto / all'amore perduto,
solo te, dolce sposa, solo te / sulla spiaggia deserta,
solo te cantava al nascere e al morire del giorno.
Poi, entrato nelle gole del Tènaro, / il varco profondo di Dite,
e nella selva dove fra le tenebre / si addensa la paura,
si avvicinò ai Mani e al loro re tremendo,
a chi non si addolcisce alle preghiere umane.
E dai luoghi più profondi dell'Èrebo, / commosse dal suo canto,
venivano leggere / le ombre, immagini opache dei morti:
a migliaia, / come si posano gli uccelli tra le foglie,
quando la sera o la pioggia d'inverno / dai monti li allontana;
donne, uomini, e ormai privi di vita, / corpi di eroi generosi, / e bambini, fanciulle senza amore / e giovani arsi sul rogo
davanti ai genitori:
ora il fango nero, il canneto orrendo del Cocito / e una palude ripugnante / con le sue acque pigre li circonda
e con nove giri lo Stige li rinserra. / Sino al cuore del Tartaro,
alle dimore della morte,
sino alle Eumenidi / dai capelli intrecciati con livide serpi
dilagò lo stupore; / muto con le tre bocche spalancate
rimase Cerbero / e insieme al vento
si arrestò la ruota di Issione. / Ma già Orfeo, eluso ogni pericolo,
tornava sui suoi passi / e libera Euridice
saliva a rivedere il cielo, / seguendolo alle spalle, / come Proserpina ordinava, / quando senza rimedio / una follia improvvisa lo travolse, / perdonabile, certo, / se sapessero i Mani perdonare: / fermo, ormai vicino alla luce, / vinto da amore, / la sua Euridice si voltò incantato a guardare. / Così gettata al vento la fatica, / infranta la legge del tiranno spietato, / tre volte si udì un fragore / nelle paludi dell'Averno.
E lei: 'Ahimè, Orfeo, / chi ci ha perduti, / quale follia?
Senza pietà il destino indietro mi richiama
e un sonno vela di morte i miei occhi smarriti.
E ora addio: intorno una notte fonda mi assorbe
e a te, non più tua, inerti tendo le mani'.
Disse e d'improvviso svanì nel nulla, / come fumo che si dissolve alla brezza dell'aria, / e non poté vederlo
mentre con la voglia inesausta di parlarle
abbracciava invano le ombre; / ma il nocchiero dell'Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude.
Che fare? Dove andarsene, perduta ormai, / perduta la sua sposa?
Con che pianto commuovere le ombre, / con che voce gli dei?
Certo, ormai fredda / lei navigava sulla barca dello Stige.
Dicono che per sette mesi / Orfeo piangesse senza requie
sotto una rupe a picco / sulla riva deserta dello Strímone,
e che narrasse le sue pene / sotto il gelo delle stelle,
ammansendo le tigri / e trascinando col canto le querce.
Così afflitto l'usignolo / lamenta nell'ombra di un pioppo la perdita dei figli, / che un bifolco crudele
con l'insidia ha tolto implumi dal nido; / piangendo nella notte,
ripete da un ramo il suo canto desolato / e riempie ogni luogo intorno / con la malinconia del suo lamento.
Nessun amore, / nessuna lusinga di nozze / gli piegarono il cuore.
Solo se ne andò tra i ghiacci del nord / e le nevi del Tànai,
sui monti di Tracia oppressi dal gelo eterno,
lamentando la morte di Euridice, / il dono inutile di Dite.
E le donne dei Cíconi offese da quel rimpianto,
durante le orge notturne dei riti di Bacco,
dispersero nei campi le sue membra dilaniate.
Ma anche allora, quando in mezzo ai gorghi
l'Ebro trascinava sull'onda / il capo spiccato dal suo collo d'avorio, / la voce ormai rappresa nella gola
'Euridice' chiamava, mentre l'anima fuggiva, / 'o misera Euridice'. E lungo tutto il fiume / le rive ripetevano 'Euridice'.
Questo disse Pròteo, e con un balzo / s'inabissò nel mare,
e là dove s'immerse / l'acqua girò in vortici di spuma.
Immobile al suo fianco, / Cirene si rivolse al figlio sbigottito:
'Figlio mio, sgombra la mente dai tristi pensieri.
Qui sta la causa d'ogni male, / per ciò le ninfe (e con loro Euridice / intrecciava danze nel segreto dei boschi)
mandarono alle api quello scempio. / Con umiltà, chiedendo pace, / offrigli doni e prega le Napee pietose:
ai voti concederanno il perdono / e deporranno l'ira.
Ma prima ti rivelerò il modo di pregarle.
Scegli fra tutti i tuoi, / che pascolano sulla cima verde del Liceo,
quattro tori dal corpo vigoroso, / i migliori, e altrettante giovenche / ancora non domate.
Alza per loro quattro are / vicino ai santuari delle dee
e dalle gole fa sgorgare il sangue sacro,
abbandonando i loro corpi nel folto del bosco.
Poi, al sorgere della nona aurora, / offri ad Orfeo, come dono funebre, / papaveri del Lete
e sacrifica una pecora nera; / torna quindi nel bosco,
e ad Euridice ormai placata / renderai onore immolando una giovenca'. Senza indugio Aristeo / segue i consigli della madre:
va al santuario, alza le are prescritte, / vi conduce quattro tori dal corpo vigoroso, / i migliori, e altrettante giovenche
ancora non domate;
poi al sorgere della nona aurora, / offre il dono funebre ad Orfeo e torna nel bosco.
E qui d'improvviso un prodigio incredibile appare: / fra le viscere disfatte degli animali / per tutto il ventre ronzano le api,
brulicando dai fianchi aperti, / in nugoli immensi ne escono
e, raccogliendosi sulla cima di un albero,
pendono a grappoli dalla curva dei rami.
Questo cantavo sulla pratica dei campi, / degli animali e intorno agli alberi, / mentre lontano sulle rive dell'Eufrate, / il grande Cesare folgora in guerra / e vincitore detta leggi ai popoli in attesa, / aprendosi la strada dell'Olimpo. / Vivevo allora nell'incanto di Partenope, / coltivando il piacere
di starmene in disparte, / io, Virgilio, io, che sul ritmo dei pastori
ho improvvisato, / cantando, con l'ardire della giovinezza,
Títiro all'ombra accogliente di un faggio.
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dal libro IV),
Orfeo ed Euridice (Georgiche,
Virgilio
EURIDICE
Nella mitologia greca, Euridice è una ninfa driade.
Sposò Orfeo e morì per il morso di un serpente in un prato mentre camminava o, secondo Virgilio e Ovidio, mentre correva tentando di sottrarsi alle attenzioni di Aristeo.
Orfeo, disperato, cantò canzoni così cariche di disperazione che tutte le ninfe e gli dei ne furono commossi. Gli fu consigliato di scendere nel regno dei morti per tentare di convincere Ade e Persefone a far tornare in vita la sua amata, così fece e le sue canzoni fecero persino piangere le Erinni.
Ade e Persefone si convinsero quindi a lasciare andare Euridice, a condizione che Orfeo camminasse davanti a lei e non si voltasse a guardarla finché non fossero usciti alla luce del sole; quando però Orfeo non udì più i passi della moglie si voltò per guardare se lo stesse ancora seguendo e vide l'anima di Euridice sprofondare nell'Ade, questa volta per sempre.
Sposò Orfeo e morì per il morso di un serpente in un prato mentre camminava o, secondo Virgilio e Ovidio, mentre correva tentando di sottrarsi alle attenzioni di Aristeo.
Orfeo, disperato, cantò canzoni così cariche di disperazione che tutte le ninfe e gli dei ne furono commossi. Gli fu consigliato di scendere nel regno dei morti per tentare di convincere Ade e Persefone a far tornare in vita la sua amata, così fece e le sue canzoni fecero persino piangere le Erinni.
Ade e Persefone si convinsero quindi a lasciare andare Euridice, a condizione che Orfeo camminasse davanti a lei e non si voltasse a guardarla finché non fossero usciti alla luce del sole; quando però Orfeo non udì più i passi della moglie si voltò per guardare se lo stesse ancora seguendo e vide l'anima di Euridice sprofondare nell'Ade, questa volta per sempre.
ORFEO
La storia
Secondo le più antiche fonti Orfeo è nativo della Tracia, terra lontana e misteriosa, nella quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata l'esistenza di sciamani che fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei morti, dotati di poteri magici operanti sul mondo della natura, capaci di provocare uno stato di trance tramite la musica.
Figlio della Musa Calliope e del sovrano tracio Eagro, o, secondo altre versioni, del dio Apollo, appartiene alla generazione precedente l'epoca della religione greca classica.
Gli è spesso associato, come figlio o allievo, Museo.
Egli fonde in sé gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il pupillo del dio Apollo, che ne protegge le spoglie, è un eroe culturale, benefattore del genere umano, promotore delle arti umane e maestro religioso; in quanto figura dionisiaca, egli gode di un rapporto simpatetico con il mondo naturale, di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della natura, è dotato di una conoscenza intuitiva e nella vicenda stessa vi sono evidenti analogie con la figura di Dioniso per il riscatto dagli inferi della Kore.
La letteratura, d'altra parte, mostra la figura di Orfeo anche in contrasto con le due divinità: la perdita dell'amata Euridice sarebbe da rintracciarsi nella colpa di Orfeo di aver assunto prerogative del dio Apollo di controllo della natura attraverso il canto; tornato dagli inferi, Orfeo abbandona il culto del dio Dioniso rinunciando all'amore eterosessuale, "inventando" così per la prima volta nella storia l'amore omosessuale. In tale contesto si innamora profondamente di Calais, figlio di Borea, e insegna l'amore omosessuale ai Traci. Per questo motivo, le baccanti della Tracia, seguaci del dio, furenti per non essere più considerate dai loro mariti, lo assalgono e lo fanno a pezzi (vedi: Fanocle). Nella versione del mito contenuta nelle Georgiche di Virgilio la causa della sua morte è invece da ricercarsi nella rabbia delle baccanti per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la morte di Euridice.
Le imprese di Orfeo
Ragazza tracia con la testa di Orfeo (1865) di Gustave MoreauSecondo la mitologia classica, Orfeo prese parte alla spedizione degli Argonauti: quando la nave Argo passò accanto all'isola delle Sirene, i marinai furono irretiti dal loro canto, ma Orfeo li salvò intonando un canto ancora più melodioso che ruppe l'incantesimo.
Ma la sua fama è legata soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide unito alla ninfa Euridice: Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, amava perdutamente Euridice e, sebbene il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni fino a che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la uccise col suo morso. Orfeo penetrò allora negli inferi incantando Caronte con la sua musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano dell'Ade. Persefone, commossa dal suo dolore e sedotta dal suo canto, persuase Ade a lasciare che Euridice tornasse sulla terra. Ade accettò, ma ad un patto: Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice per tutto il cammino fino alla porta dell'Ade senza voltarsi mai all'indietro. Esattamente sulla soglia degli Inferi, e credendo di esser già uscito dal Regno dei Morti, Orfeo non riuscì più a resistere al dubbio e si voltò, per vedere Euridice scomparire all'istante e tornare tra le Tenebre per l'eternità. Orfeo, secondo il mito, da allora rifiutò il canto e la gioia, offendendo le Menadi, seguaci di Dioniso che lo uccisero e lo dilaniarono, si nutrirono di parte del suo corpo e ne gettarono la testa nell'Erebo. La testa scese fino al mare e da qui all'isola di Lesbo, dove la testa fu sepolta nel santuario di Apollo. Il corpo venne seppellito dalle Muse ai piedi dell'Olimpo. La sua lira venne invece infissa nel cielo, e formò una costellazione.
Un'altra versione, più drammatica e commovente, parte dalle stesse premesse: Euridice muore uccisa da un serpente mentre scappa dalle grinfie di Aristeo. Orfeo decide allora di andarla a riprendere. Dunque, trova a Cuma la discesa per gli Inferi. Giunto lì incanta Caronte, Cerbero e Persefone. Ade acconsente a patto che egli non si volti fino a che entrambi non siano usciti dal regno dei morti. Insieme ad Hermes (che deve controllare che Orfeo non si volti), si incamminano ed iniziano la salita. Euridice, non sapendo del patto, continua a chiamare in modo malinconico Orfeo, pensa che lui non la guardi perché è brutta, ma lui, con grande dolore, deve continuare imperterrito senza voltarsi. Appena vede un po' di luce, Orfeo, capisce di essere uscito dagli Inferi e si volta. Purtroppo, però, Euridice ha accusato un dolore alla caviglia morsa dal serpente e, dunque, si è attardata... Quindi, Orfeo ha trasgredito la condizione posta da Ade. Solo ora Euridice capisce e, all'amato, sussurra parole drammatiche e struggenti: «Grazie, amore mio, hai fatto tutto ciò che potevi per salvarmi». Si danno poi la mano, consapevoli che quella sarà l'ultima volta. Drammatica anche la presenza di Hermes che, con volto triste ed espressione compassionevole, trattiene Euridice per una mano, perché ha promesso ad Ade di controllare ed è ciò che deve fare. Orfeo vede ora scomparire Euridice e si dispera, perché sa che ora non la vedrà più. Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita partecipare ad un'orgia dionisiaca. Per tener fede anche lui a ciò che ha detto, rinuncia, ed è proprio questo che porta anche lui alla morte: le Baccanti, infuriate, lo sbranano e gettano la sua testa nel fiume Evros, insieme alla sua lira. La testa cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus, toccato da questo evento commovente, prende la lira e la mette in cielo formando una costellazione.
Evoluzione del mito
« Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi "sia finita" e mi voltai »
(Orfeo ne L'inconsolabile di Cesare Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947)
Orfeo e gli animali. Mosaico romano di età imperiale. Palermo, Museo archeologico.Il mito di Orfeo nasce forse come mito di fertilità, come è possibile desumere dagli elementi del riscatto della Kore dagli inferi e dello σπαραγμος (dal greco antico: corpo fatto a pezzi) che subisce il corpo di Orfeo, elementi che indicano il riportare la vita sulla terra dopo l'inverno.
I riferimenti al mito nella letteratura greca arcaica e classica sono pochi, tanto che alcuni degli elementi essenziali della vicenda compariranno e verranno approfonditi solo dalla letteratura latina in poi. Due autori greci che si sono occupati del mito di Orfeo proponendo due diverse versioni di esso sono il filosofo Platone e il poeta Apollonio Rodio.
Nel discorso di Fedro, contenuto nell'opera "Simposio", Platone inserisce Orfeo nella schiera dei sofisti, poiché utilizza la parola per persuadere, non per esprimere verità; egli agisce nel campo della doxa, non dell'episteme. Per questa ragione gli viene consegnato dagli dei degli inferi un phasma di Euridice; inoltre, non può essere annoverato tra la schiera dei veri amanti poiché il suo eros è falso come il suo logos.
OrfeoLa sua stessa morte ha carattere anti-eroico poiché ha voluto sovvertire le leggi divine penetrando vivo nell'Ade, non osando morire per amore. Il phasma di Euridice simboleggia l'inadeguatezza della poesia a rappresentare e conoscere la realtà, conoscenza che può essere conseguita solo tramite le forme superiore dell'eros.
Apollonio Rodio inserisce il personaggio di Orfeo nelle Argonautiche presentandolo come un eroe culturale, fondatore di una setta religiosa. il ruolo attribuito ad Orfeo esprime la visione che del poeta hanno gli alessandrini: attraverso la propria arte, intesa come abile manipolazione della parola, il poeta è in grado di dare ordine alla materia e alla realtà; a tal proposito è emblematico l'episodio nel quale Orfeo riesce a sedare una lite scoppiata tra gli argonauti cantando una personale cosmogonia.
Secondo le più antiche fonti Orfeo è nativo della Tracia, terra lontana e misteriosa, nella quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata l'esistenza di sciamani che fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei morti, dotati di poteri magici operanti sul mondo della natura, capaci di provocare uno stato di trance tramite la musica.
Figlio della Musa Calliope e del sovrano tracio Eagro, o, secondo altre versioni, del dio Apollo, appartiene alla generazione precedente l'epoca della religione greca classica.
Gli è spesso associato, come figlio o allievo, Museo.
Egli fonde in sé gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il pupillo del dio Apollo, che ne protegge le spoglie, è un eroe culturale, benefattore del genere umano, promotore delle arti umane e maestro religioso; in quanto figura dionisiaca, egli gode di un rapporto simpatetico con il mondo naturale, di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della natura, è dotato di una conoscenza intuitiva e nella vicenda stessa vi sono evidenti analogie con la figura di Dioniso per il riscatto dagli inferi della Kore.
La letteratura, d'altra parte, mostra la figura di Orfeo anche in contrasto con le due divinità: la perdita dell'amata Euridice sarebbe da rintracciarsi nella colpa di Orfeo di aver assunto prerogative del dio Apollo di controllo della natura attraverso il canto; tornato dagli inferi, Orfeo abbandona il culto del dio Dioniso rinunciando all'amore eterosessuale, "inventando" così per la prima volta nella storia l'amore omosessuale. In tale contesto si innamora profondamente di Calais, figlio di Borea, e insegna l'amore omosessuale ai Traci. Per questo motivo, le baccanti della Tracia, seguaci del dio, furenti per non essere più considerate dai loro mariti, lo assalgono e lo fanno a pezzi (vedi: Fanocle). Nella versione del mito contenuta nelle Georgiche di Virgilio la causa della sua morte è invece da ricercarsi nella rabbia delle baccanti per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la morte di Euridice.
Le imprese di Orfeo
Ragazza tracia con la testa di Orfeo (1865) di Gustave MoreauSecondo la mitologia classica, Orfeo prese parte alla spedizione degli Argonauti: quando la nave Argo passò accanto all'isola delle Sirene, i marinai furono irretiti dal loro canto, ma Orfeo li salvò intonando un canto ancora più melodioso che ruppe l'incantesimo.
Ma la sua fama è legata soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide unito alla ninfa Euridice: Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, amava perdutamente Euridice e, sebbene il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni fino a che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la uccise col suo morso. Orfeo penetrò allora negli inferi incantando Caronte con la sua musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano dell'Ade. Persefone, commossa dal suo dolore e sedotta dal suo canto, persuase Ade a lasciare che Euridice tornasse sulla terra. Ade accettò, ma ad un patto: Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice per tutto il cammino fino alla porta dell'Ade senza voltarsi mai all'indietro. Esattamente sulla soglia degli Inferi, e credendo di esser già uscito dal Regno dei Morti, Orfeo non riuscì più a resistere al dubbio e si voltò, per vedere Euridice scomparire all'istante e tornare tra le Tenebre per l'eternità. Orfeo, secondo il mito, da allora rifiutò il canto e la gioia, offendendo le Menadi, seguaci di Dioniso che lo uccisero e lo dilaniarono, si nutrirono di parte del suo corpo e ne gettarono la testa nell'Erebo. La testa scese fino al mare e da qui all'isola di Lesbo, dove la testa fu sepolta nel santuario di Apollo. Il corpo venne seppellito dalle Muse ai piedi dell'Olimpo. La sua lira venne invece infissa nel cielo, e formò una costellazione.
Un'altra versione, più drammatica e commovente, parte dalle stesse premesse: Euridice muore uccisa da un serpente mentre scappa dalle grinfie di Aristeo. Orfeo decide allora di andarla a riprendere. Dunque, trova a Cuma la discesa per gli Inferi. Giunto lì incanta Caronte, Cerbero e Persefone. Ade acconsente a patto che egli non si volti fino a che entrambi non siano usciti dal regno dei morti. Insieme ad Hermes (che deve controllare che Orfeo non si volti), si incamminano ed iniziano la salita. Euridice, non sapendo del patto, continua a chiamare in modo malinconico Orfeo, pensa che lui non la guardi perché è brutta, ma lui, con grande dolore, deve continuare imperterrito senza voltarsi. Appena vede un po' di luce, Orfeo, capisce di essere uscito dagli Inferi e si volta. Purtroppo, però, Euridice ha accusato un dolore alla caviglia morsa dal serpente e, dunque, si è attardata... Quindi, Orfeo ha trasgredito la condizione posta da Ade. Solo ora Euridice capisce e, all'amato, sussurra parole drammatiche e struggenti: «Grazie, amore mio, hai fatto tutto ciò che potevi per salvarmi». Si danno poi la mano, consapevoli che quella sarà l'ultima volta. Drammatica anche la presenza di Hermes che, con volto triste ed espressione compassionevole, trattiene Euridice per una mano, perché ha promesso ad Ade di controllare ed è ciò che deve fare. Orfeo vede ora scomparire Euridice e si dispera, perché sa che ora non la vedrà più. Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita partecipare ad un'orgia dionisiaca. Per tener fede anche lui a ciò che ha detto, rinuncia, ed è proprio questo che porta anche lui alla morte: le Baccanti, infuriate, lo sbranano e gettano la sua testa nel fiume Evros, insieme alla sua lira. La testa cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus, toccato da questo evento commovente, prende la lira e la mette in cielo formando una costellazione.
Evoluzione del mito
« Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi "sia finita" e mi voltai »
(Orfeo ne L'inconsolabile di Cesare Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947)
Orfeo e gli animali. Mosaico romano di età imperiale. Palermo, Museo archeologico.Il mito di Orfeo nasce forse come mito di fertilità, come è possibile desumere dagli elementi del riscatto della Kore dagli inferi e dello σπαραγμος (dal greco antico: corpo fatto a pezzi) che subisce il corpo di Orfeo, elementi che indicano il riportare la vita sulla terra dopo l'inverno.
I riferimenti al mito nella letteratura greca arcaica e classica sono pochi, tanto che alcuni degli elementi essenziali della vicenda compariranno e verranno approfonditi solo dalla letteratura latina in poi. Due autori greci che si sono occupati del mito di Orfeo proponendo due diverse versioni di esso sono il filosofo Platone e il poeta Apollonio Rodio.
Nel discorso di Fedro, contenuto nell'opera "Simposio", Platone inserisce Orfeo nella schiera dei sofisti, poiché utilizza la parola per persuadere, non per esprimere verità; egli agisce nel campo della doxa, non dell'episteme. Per questa ragione gli viene consegnato dagli dei degli inferi un phasma di Euridice; inoltre, non può essere annoverato tra la schiera dei veri amanti poiché il suo eros è falso come il suo logos.
OrfeoLa sua stessa morte ha carattere anti-eroico poiché ha voluto sovvertire le leggi divine penetrando vivo nell'Ade, non osando morire per amore. Il phasma di Euridice simboleggia l'inadeguatezza della poesia a rappresentare e conoscere la realtà, conoscenza che può essere conseguita solo tramite le forme superiore dell'eros.
Apollonio Rodio inserisce il personaggio di Orfeo nelle Argonautiche presentandolo come un eroe culturale, fondatore di una setta religiosa. il ruolo attribuito ad Orfeo esprime la visione che del poeta hanno gli alessandrini: attraverso la propria arte, intesa come abile manipolazione della parola, il poeta è in grado di dare ordine alla materia e alla realtà; a tal proposito è emblematico l'episodio nel quale Orfeo riesce a sedare una lite scoppiata tra gli argonauti cantando una personale cosmogonia.
SIGNIFICATO DEI NOMI
ALFREDO ( saggio della pace )
Deriva dal sassone aelf e raed che significa "consigliato dagli elfi". Secondo un'altra interpretazione potrebbe derivare dalle parole all (tutto) e frith (pace) e significare quindi "molto pacifico".
LEDA ( che ingiuria )
Deriva dal greco Leda o Lede, latinizzato in Leda. Non ha una sicura interpretazione.
Leda è una figura della mitologia greca. Donna mortale, figlia del re di Sparta, fu vista da Zeus che se ne invaghì e si trasformò in un cigno per sedurla.
Leda è una luna di Giove e 38 Leda un grande e scuro asteroide della fascia principale.
AMEDEO ( colui che ama Dio )
Dal nome latino Amadeus, che, tratto dall'espressione qui amat Deum, può essere tradotto come colui che ama Dio. A proposito del significato, inoltre, Amedeo è anche analogo a nomi quali Amanzio e Amatore.
ADELE ( nobile )
Deriva dal germanico adal e significa nobile.
ORFEO ( che vive solo )
EURIDICE ( dispensatrice di giustizia )
Deriva dal sassone aelf e raed che significa "consigliato dagli elfi". Secondo un'altra interpretazione potrebbe derivare dalle parole all (tutto) e frith (pace) e significare quindi "molto pacifico".
LEDA ( che ingiuria )
Deriva dal greco Leda o Lede, latinizzato in Leda. Non ha una sicura interpretazione.
Leda è una figura della mitologia greca. Donna mortale, figlia del re di Sparta, fu vista da Zeus che se ne invaghì e si trasformò in un cigno per sedurla.
Leda è una luna di Giove e 38 Leda un grande e scuro asteroide della fascia principale.
AMEDEO ( colui che ama Dio )
Dal nome latino Amadeus, che, tratto dall'espressione qui amat Deum, può essere tradotto come colui che ama Dio. A proposito del significato, inoltre, Amedeo è anche analogo a nomi quali Amanzio e Amatore.
ADELE ( nobile )
Deriva dal germanico adal e significa nobile.
ORFEO ( che vive solo )
EURIDICE ( dispensatrice di giustizia )
orfeo ed Euridice
Orfeo ,superato tutte le difficoltà, già tornava indietro, ed Euridice avanzava libera ,verso la luce, seguendolo a distanza così come aveva ordinato Proserpina, quando un’improvvisa pazzia, in realtà comprensibile se solo i Mani sapessero perdonare, travolse l’imprudente innamorato: si fermò, giunto quasi alla luce e,sconfitto dal sentimento,si voltò a guardare la sua Euridice. Così tutta la fatica fu sprecata e infranti i patti del crudele sovrano e per tre volte si sentì nelle paludi dell’Averno un frastuono.
Ella disse: “Quale pazzia, Orfeo, ci ha dispersi? Per la seconda volta lo spietato destino mi riporta indietro, e il sonno mi chiude gli occhi tremanti. Addio oramai: mi sento portare via, avvolta da una densa notte, non più tua, mentre ti allungo le mani impotenti.
Questo disse e come fumo che svanisce nell’aria tersa improvvisamente scomparve sfumando in direzione opposta senza più vederlo tentare di afferrarne l’ombra intenzionato a parlarle ancora; e il traghettatore dell’Orco non gli permise più di oltrepassare la palude. Che fare? Dove andare dopo aver perso la moglie una seconda volta? Con quale pianto commuovere gli dei, con quale voce intenerirli? Orami lei fredda, veniva trasportata via sulla barca dello Stige…
lunedì 21 giugno 2010
DAYLIGHT AND THE SUN
There was no light
Only the white night
First born when the sun
Screamed her eyes open
Daylight in the fields
Daylight mountains
Fire kisses the floor
Of the lakes and makes shadows
Now I cry for daylight
Daylight and the sun
Now I cry for daylight
Daylight everyone
Daylight in my heart
Daylight in the trees
Daylight kissing everything
She can see
Ooh your dream
Here on the water
Warm the sand
The seagulls calling
Kissed by kindness
You gave me this
Your fire becomes a kiss
antony and the johnsons
domenica 20 giugno 2010
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