domenica 19 settembre 2010
lunedì 6 settembre 2010
Capitolo Primo
Quel giorno il sole era fioco e il cielo velocissimo, come un fondale di teatro, teso da bobine invisibili, sul quale le nuvole scorrevano, lattiginose e dense, come le macchie orizzontali delle unghie. La collina erbosa era un vello prezioso, accarezzato da mani invisibili, un mare saturo, che solcavo, spingendo…Mi addentravo tra i ciuffi d’erba, gli sterpi, quasi penetravo quella macchia vermiglia. Mi fermai a riprendere fiato ed alzai gli occhi al cielo, senza capire. Cosa stavo facendo? La luce mi benediva incerta e l’erba mi ab-bracciava e mi scacciava. Ancora qualche metro e sarei arrivato al-la casa che non si vedeva…così la chiamavamo: “La casa che non si vede”. In paese avevano quasi smesso di rammentarla, era diven-tata una presenza invisibile, un’altura dolce e tenue all’orizzonte, che si confondeva, silenziosa, priva di vita, di storia…La casa che non si vede respirava, la sentivo, avvicinandomi. Ansimava impau-rita e minacciosa. Ero certo che, se mi fossi disteso, sarei rimasto sollevato dal suolo, da quanta folta e alta erba mi avrebbe sorret-to…quella fu una sensazione che non avrei più scordato…
Mi feci forza e continuai a dividere quella pelliccia, come la coda di un pettine che traccia la riga tra i capelli. Lentamente i colori sembrarono spengersi, così come i suoni…il fruscio, i sussurri del vento. Tutto andò attenuandosi, così l’erba si diradò e caddi in uno spiazzo vuoto. La luce ingoiò la paura e mi sentii stordito e solleva-to. Guardavo la ghiaia bianca che abbagliava e non mi accorsi subi-to che mi trovavo proprio di fronte alla casa. Alzando lo sguardo, un’ombra, all’improvviso, mi investì, come se il sole fosse corso dietro la collina a nascondersi e la casa avesse gettato il suo mantel-lo d’ombra su di me. Non capii e per un attimo non svenni. D’improvviso, freddo. La facciata grigia e cupa mi fissa-va…serrata. Come una fortezza inespugnabile, come un cuore du-ro. I rampicanti la ricamavano di riccioli e ragnatele, come a difen-derla…come a soffocarla. Salivano alti fino al tetto…uscivano ed entravano attraverso gli interstizi tra i mattoni scoperti. Come un pizzo di lutto sulla casa.
Mi voltai indietro e vidi il muro d’erba alta che vibrava come un incendio. Sarei voluto scappare e scendere subito giù dalla collina. Avvertivo l’alito della casa o del vento sulla nuca e le spalle e lo sguardo fisso che mi spingeva giù.
Mi voltai ancora, senza alzare i piedi da terra, facendo un cerchio nella ghiaia e, di fronte all’imponenza severa di quella casa, mi sentii congelare…ma, come rompendo un incantesimo, feci il pri-mo passo…quello che fu il primo passo verso l’ignoto. Avevo de-ciso. E così cambiarono il cielo e le stelle e i destini e i futuri e i moti e le leggi. Così cambiò la mia vita, per un passo che era un tentativo…una risposta…una sfida alla paura.
Mi avvicinai all’immensa porta e cercai, tra le foglie d’edera, il bat-tente. Provai ad afferrarlo per alzarlo, ma la ruggine e il tempo lo tenevano saldo. Quindi rinunciai e mi decisi a bussare. Il mio pu-gno picchiò sul legno ma le foglie ammorbidirono quel suono cupo e profondo. Dovevo liberare il portone dal verde. Strappai con gesti rapidi e profani quei viticci taglienti e forti e quasi li sentii grida-re…mi fermai, colpevole. Decisi di bussare di nuovo, con più deci-sione. Due boati come tuoni lontani…Silenzio. Silenzio…provai ancora e ancora. E ancora il silenzio sembrò una salvezza irreale.
Cosa avrei dovuto fare? Andarmene? Ancora? Decisi che avrei bussato un’ultima volta e lo feci, con tutta la forza che avevo in corpo, con la disperazione di chi non vuole capitolare. Il boato fu come un muggito infernale. Il portone si schiuse, come crepato da un terremoto e uno spiraglio di buio si aprì davanti ai miei occhi terrorizzati.
Cosa fare? Entrare in quella bocca socchiusa? Nel buio?
Non ci pensai troppo, per paura che i ripensamenti vincessero. Mi aggravai su quell’anta pesante e spinsi con tutto il corpo. Sentivo il legno contro i miei palmi scricchiolare dolorante. La luce entrò vio-lenta e tagliò una figura geometrica di polvere bianca. Tutto era confuso ed evanescente nel chiarore nuovo. Un passo per non cade-re e finii dentro. Dal buio emersero contorni indefiniti e miriadi di grigi diversi e di neri più o meno densi. Mi trovavo nell’ingresso della casa. Una sala grande, con delle scale di pietra larghe e poca mobilia addormentata sotto una coperta di polvere. Un tavolino for-se…e chissà quanto altro, inghiottito dal nero tutto intorno. Chiesi permesso con una voce che nessuno avrebbe udito. “C’è nessuno?”
Mi sentii così stupido e piccolo. Intruso.
Ero come Orfeo nel regno dei morti. Quello ero.
“È permesso?” gridai senza convinzione.
La luce aveva scolorito il nero e potevo distinguere. Mi guardai in-torno e ovunque vedevo abbandono, morte, risentimento…le mura, il pavimento, la pietra facevano parte di un’immensa tomba che io avevo profanato. Io di luce. Io di vita. Gridai a qualcuno che non c’era. Il silenzio era quello più vero che avessi mai udito. Era as-senza pura.
Mi avvicinai ad un tavolinetto rotondo e cercai di sollevare un por-tafotografie appesantito dalla polvere del tempo. Passai la mano sul vetro di velluto e un volto di donna emerse nel bianco e nero.
“Chi è là?”
Terrore. Una voce. Dall’alto. Vetri rotti. Il portafotografie.
Restai immobile, come impietrito.
“Chi è?” chiese un uomo, se era vivo.
Guardai in cima alle scale, anche se non vedevo niente oltre al ne-ro.
“Mi scusi, non volevo.” Un passo sui vetri. Un passo indietro.
“Chi è?” di nuovo.
“Lei non mi conosce…mi chiamo Amedeo!”
“È un ladro!” incalzò.
“No, per carità!”
“E allora cosa ci fa qui? In casa mia?”
“Volevo parlare con lei.”
“Questa è bella! Lei voleva semplicemente rubare quello che c’era da rubare, ma non si aspettava che qui abitasse ancora qualcuno! Lei è un ladro!”
Una figura si affacciò in vetta alle scale, emergendo dall’oscurità. Un uomo in vestaglia, senza colori. Un’immagine antica e flebile.
“Le giuro che si sta sbagliando! Sono qui per parlarle!” provai.
L’uomo acquistava sempre più nitidezza e potei decifrare meglio la sua fisionomia. Era alto e longilineo. Barba lunga e occhi piccoli. Carnato chiarissimo, quasi splendeva nella penombra. Indossava una vestaglia da camera, in raso bordeaux, legata in vita con un cordone da tenda verde bottiglia, pantaloni del pigiama in seta nera e delle calzature chiuse, da camera, in velluto blu scuro. I capelli neri e impomatati erano pettinati in modo metodico. Divisa su un lato e ciuffo che tagliava la fronte e si fermava dietro l’orecchio de-stro. Le sopracciglia erano folte ma eleganti, decise.
L’uomo mi guardava dall’alto, come se stesse davanti alla cosa più misera che avesse mai visto in vita sua. Io mi sentivo così indifeso e inopportuno. Sarei voluto scomparire. Ma quegli occhi piccoli e luccicanti… Due abissi che mi paralizzavano. Non riuscivo a reagi-re!
“Avanti, dunque! Parli! Cosa sta aspettando!”
Ero imbarazzato e non sapevo da dove iniziare, ma non potevo a-spettare oltre. L’uomo mi fissava, con aria di sfida.
“So che è sprovvisto di servitù da tempo” dissi “ e una casa così grande necessita di personale addetto alla sua manutenzione.”
“Ho licenziato la servitù da anni ormai e questo non la deve riguar-dare!” controbatté.
“Lo so…tutti in paese si chiedono…”
“In paese farebbero bene a non preoccuparsi delle mie faccende! Io non interagisco col mondo esterno e non voglio intrusi in casa mia!” mi fermò.
“Veramente, io credo che potrei esserle utile! So fare il giardiniere. Potrei essere il suo maggiordomo. So fare le pulizie di casa…so servire a tavola!”.
“Con tutte le cose che sa fare, perché è venuto a perdere tempo qui?” mi chiese senza muoversi di un centimetro. Poi continuò:
“Ma certo, dovevo pensarci prima! È stata Adele! Quella non si fa mai i fatti suoi!”
“Adele non c’entra…” corressi.
“Ora se ne vada! Mi ha stancato! Io non ho tempo da perdere!”
L’uomo fece per andarsene.
“Ma come? È lei che sta perdendo tutto il suo tempo!” gridai.
Si bloccò. Di spalle. Il raso della vestaglia, bagnato dalla poca luce rimasta, era l’unico appiglio per il mio sguardo smarrito.
Non volevo perderlo…non volevo che l’ombra l’inghiottisse di nuovo. Non so perché.
Si voltò affacciandosi di nuovo sulle scale. Il suo viso portava una maschera carica di odio.
“Lei non è nessuno! Nessuno per rivolgersi a me in questo modo! Se ne vada e non rimetta più i piedi nella mia casa! Subito!” mi or-dinò l’uomo indicandomi la porta, come un guardiano indica dall’alto del faro una nave all’orizzonte.
Io mi sentii annegare. Ero perso in mare. Scappai via.
Uscii velocemente dalla casa, con le lacrime agli occhi e mi fiondai nel vello d’erba, correndo. Faticosamente avanzavo, scendendo dal-la collina, ma il verde mi tratteneva…era come se l’erba si aggro-vigliasse alle caviglie e mi tirasse indietro…ma non volevo pensa-re…volevo solo uscire da quel posto incantato…inspiegabile. Sen-tivo il vento che mi schiaffeggiava e mi rallentava. Non riuscivo più a vedere chiaramente…le lacrime bagnarono la vista e mi ritro-vai in una palla di vetro, piena d’acqua. L’erba che mi avviluppava.
Caddi perdendo i sensi.
Sospeso.
Così mi sentii quando ripresi i sensi.
Sospeso nel vuoto.
Vuoto nel vuoto.
Lentamente alzai le palpebre e misi a fuoco un volto, nella penom-bra. Adele mi guardava preoccupata, coi suoi occhi di giada. Sorri-se e le sue guance presero a colorarsi di un rosa vivace, come fosse stata lei a svenire.
“Amedeo!” disse con tono di rimprovero, poco credibile “ cosa ti è passato per la mente?”
Io la guardai, facendo finta di non capire, come un bambino rim-proverato, colto in flagrante.
“Ti avevo detto che ci avrei pensato io…che gli avrei parlato io di te! Sai quanto lui odi intrusi in casa…estranei…beh, chiunque oltre a lui a dire il vero!” motivò.
“Io pensavo che…”
“Non dovevi pensare, allora!” disse pizzicandomi la guancia, “co-me ti senti? Va meglio?”
“Credo di sì…anzi, no, non va bene affatto! Sai quanto ho bisogno di un lavoro, Adele!”.
“Se continui così non l’avrai mai questo benedetto lavoro!”
“Cosa intendi? Pensi che ci siano ancora delle possibilità?” chiesi incredulo, prendendola per le spalle.
Ci trovavamo in quella che un tempo fu una cucina. La cucina della casa. Non c’erano dubbi. Era grigia anch’essa. Morta.
Adele mi fissava in silenzio, china su di me, senza parlare.
Lasciai la presa, così si alzò in piedi. Io oscillai su quella che capii essere una sedia a dondolo di vimini. Adele era una donna dolce. Una creatura irreale. Indossava sempre una vestaglia incrociata…lo stesso tipo, in fantasie e colori diversi, come una divisa che, credo, si cucisse da sola. Portava i capelli color cenere raccolti alla nuca in un nido astratto e divertente. Zoccoli ai piedi e una collanina d’argento…a volte un cardigan di lana pesante, con dei grandi bot-toni di cuoio, divisi in quattro da un taglio a croce…credo fosse stato un pullover maschile…tra il blu ed il verde…un colore che si sposava perfettamente con quello dei suoi occhi e del suo carnato roseo. Dimostrava più anni di quelli che aveva, anche se non sape-vo quanti anni avesse, ma l’impressione che dava era quella. Non si è mai sposata o meglio, è sempre stata sola, che io sappia.
“Allora? Credi che sia ancora fattibile?” insistei.
“Certo che sei proprio un bel presuntuoso! Entri in casa della gente senza essere invitato, al buio, come un ladro! Hai rotto persino la cornice con la foto della signora!”.
“Non volevo” provai.
“Sei proprio maldestro! Non potevi aspettare che ci parlassi io pri-ma?”.
Avevo combinato proprio un guaio. Pensavo di fare bene…volevo giocarmela io stesso quell’opportunità ma avevo sbagliato e non avevo scusanti.
“Adele, ti prego!” supplicai “pensaci tu, ti prego!”
“Non ti prometto niente, anzi! Non ci sperare neanche!”
“Adele!” sentii chiamare. Ci voltammo verso la porta. Era lui. La sua voce.
“ Si mette male…!” sussurrò la donna facendomi cenno di stare in silenzio “torno subito, aspettami qui!”
Adele corse fuori dalla cucina lasciando la porta socchiusa ed io mi alzai dalla sedia a dondolo, guardandomi intorno, senza finalmente la paura di sembrare troppo curioso. Nel mezzo della stanza c’era un tavolone di legno decrepito, con sopra un piano massiccio di marmo bianco, un cesto di frutta triste e, alle pareti, vecchie madie, mobili con ante a vetro mentre, alle mie spalle, una cucina grandis-sima, di ferro smaltato, con tutti gli attrezzi possibili ed immagina-bili sparsi ovunque, ma inutilizzati da tempo. Un lavandino di gra-nito, con sotto una tendina a fiori, e le finestre chiuse, serrate. La fioca luce presente proveniva da uno scuretto, appena aperto, che lasciava entrare furtivamente uno spiraglio di vita, debole.
Mi avvicinai alla porta, per provare ad origliare.
“Ti pregherei di non farti venire più in mente idee come questa!” rimproverò l’uomo, “Io non ho bisogno di nessuno…mi sembra chiaro ormai…sono due anni che ho licenziato la servitù e non ho più assunto nessuno, neppure lei…io non capisco perché insista a perseguitarmi con la sua fastidiosa presenza! Non la pago neanche! Non capisce che qui non è gradita! Cosa devo fare per farla desiste-re, la devo maltrattare?”.
“Quello lo fa già da tempo!” puntualizzò Adele “ non capisce quan-to il mio affetto per lei sia sincero e radicato!”
“Francamente incomprensibile! Torni a casa sua…da suo padre e pensi a lui, invece che venire ogni santo giorno qui, a portarmi i suoi cesti di viveri, come una moderna Cappuccetto Rosso!”.
“Non ci posso credere! Lei è veramente un ingrato, ma questo lo sappiamo bene tutti e due! Come sappiamo anche che io sono una cretina! Cretina a preoccuparmi per lei!”
“Io non ho bisogno del suo aiuto, me la cavo bene da solo!” si dife-se l’uomo.
“ Ma certo…tutto il tempo sepolto vivo in questa tomba! A letto o a guardare vecchie fotografie…senza mettere il naso fuori di ca-sa…per di più al buio! A volte ho persino pensato che fosse diven-tato un…come si chiamano? Vampiro! Si!”
“Adele…” silenzio “…per me può bastare così!”
“Guardi che quella che si dovrebbe offendere sono io!”
“Se ne vada!” ordinò la voce cupa.
“Lo sa che è inutile…me l’avrà ripetuto un centinaio di volte, ma io non me ne andrò, o meglio, tornerò ogni giorno…perché lei mori-rebbe qui, senza cibo…solo…”.
“Ma non capisce che è proprio questo che voglio?”
Le voci si erano fatte più lontane, così provai ad allargare lo spira-glio schiuso dalla porta…ma questa cigolò in modo eclatante.
Silenzio.
Terrore.
“Chi c’è?” chiese l’uomo ad Adele.
“Dove? Cosa intende?”chiese lei.
“Intendo chi c’è in cucina! Ma non lo voglio neppure immaginare! Sarebbe folle anche solo pensare che sia quel garzone, suo ami-co…quel ladruncolo che ho sorpreso frugare in casa mia, vero?”.
“Amedeo è un ragazzo perbene!” si difese Adele.
“Non lo voglio in casa mia. Sono stato chiaro? Né lui, né lei! Fuo-ri!”
“Ha solo bisogno di lavorare, la prego…!”
“Fuo-ri! Fuori!”
Sentii i passi di Adele avvicinarsi alla porta e corsi subito a seder-mi. La donna entrò in cucina a testa bassa, si asciugò le lacrime, fe-ce un profondo respiro e sorrise. Mi sorrise.
“È tutto a posto!” mi rassicurò, poco convinta “ ora però è meglio se ce ne torniamo in paese…tra poco sarà buio!”
“Più buio di così?” provai a sdrammatizzare.
Adele sorrise ancora, ma in modo più convincente!
“Già! Su, andiamo!”prese il cesto svuotandolo sul tavolo e il cardi-gan dalla sedia.
“Mi dispiace!” le dissi “è tutta colpa mia! Non avrei dovuto!”
Uscimmo dalla cucina e attraversammo un buio che lei conosceva bene…mi teneva per mano e mi condusse fuori…non so come. In quel breve tragitto avvertii dei brividi su tutto il corpo…paura, di-sagio e qualcos’altro che non capivo…quel buio era vuoto…era as-senza! Avevo solo quel contatto, quella mano calda a rammentarmi la vita…tutto il resto era privo…privo di tutto.
Usciti fuori, la luce esanime della sera sembrò, per i primi secondi, violentissima, come il sole a mezzogiorno. La porta che ci chiu-demmo alle spalle non era quella principale, dell’ingresso.
“Tu passi da qui?” chiesi ad Adele.
“Dalla porta di servizio!” precisò lei, ”io sono una cameriera!”
Non parlammo più per tutta la discesa dalla collina. L’erba non era più scossa dal vento e sembrava districarsi al nostro passag-gio…accarezzandoci dolcemente i polpacci e solleticandoci le braccia. Io seguivo quella donna, come un cane segue il padrone, senza farmi domande. In poco tempo fummo a valle, sul sentiero per il paese. Non sapevo come congedarmi, presto le nostre strade si sarebbero separate, forse per sempre.
“Io…” ruppi il silenzio, “ volevo ringraziarti per quello che hai fat-to per me!”
“Non ho fatto niente!” precisò “mi hai anticipato tu!”
“Beh, si! Dovevo aspettare…ma non credo che sarebbe andata mol-to diversamente!”.
“Forse! Ma non dobbiamo arrenderci!” mi afferrò per un braccio.
“Tu mi devi aiutare!” mi chiese.
“Credevo che fossi tu a dovermi aiutare!” precisai.
“Vediamoci domani, a mezzogiorno, qui, davanti a quel muretto!” disse indicando.
“Cos’hai in mente?” le chiesi intimorito.
“Non ti preoccupare! Domani a quell’ora sarò di ritorno dalla casa che non si vede e ti dirò se il signore ha cambiato idea!”.
“Ma come potrebbe se…”
“A domani!” gridò correndo via la donna.
Rimasi solo e continuai verso il paese. Camminando, mi abbracciai da solo, come cullando un bimbo invisibile…mi coccolavo, pie-gando la testa sulla spalla, in cerca di una carezza…qualcosa era cambiato in me.
Non so dire perché e non lo voglio neppure sapere.
Anche se lo so esattamente, preferisco mentire…
Ho sempre avuto la dote di trasformare la realtà…di renderla mi-gliore e di crederci…io non mi sentivo sconfitto.
Tutto diceva il contrario, ma io sentivo che la porta era ancora soc-chiusa…
Tornai a casa e quasi non rivolsi parola a mia madre…mangiai di fretta e poi mi fiondai sul letto. Spensi le luci e chiusi gli scuri della finestra. Quel buio era diverso. Era meno oscuro e compatto, era blando.
Il buio della casa che non si vede, invece…era reale!
Sedevo sul muro di pietra, sotto il sole cocente, rivolto verso la col-lina della casa. Aspettavo. E pensavo.
Pensavo alla mia vita, non lo facevo spesso. Ho sempre semplifica-to tutto. Le emozioni, i pensieri…ho sempre ridotto tutto in un fon-do ristretto di concretezza…come una pentola lasciata sul fuoco, senza coperchio, la mia vita era diventata una salsa concentrata…
Adesso invece, tutto sembrava più sensibile, il mio corpo, la mia mente…avvertivo l’anima delle cose…e per me erano sensazioni nuove, forse sopite da anni, che esplodevano all’improvviso.
Pensavo alla mia storia, così breve…un ragazzo di appena diciotto anni, cresciuto senza il padre…che aveva conosciuto solo la pover-tà e non si era mai mosso dal paese in cui era nato…
Mi sono sempre arrangiato a fare lavoretti saltuari…aiutavo mia madre nell’orto, ma adesso era venuto il momento di cercarmi un lavoro serio…non potevamo continuare con il solo stipendio di mia madre e, se non avessi trovato niente in paese, sarei dovuto andare in città a cercarmi da vivere.
Probabilmente, il momento di lasciare mia madre era imminente, poiché in paese non c’erano possibilità concrete di lavoro…l’unica speranza che mi era rimasta era, appunto, il signore della casa che non si vede. Sentii parlare di lui per la prima volta qualche settima-na prima, da mia madre, una mattina, quando era venuta Adele per comprare delle verdure e della frutta.
“Ti dai sempre da fare per quell’ingrato?” le chiese mia madre.
“Il signore è buono in fondo, senza di me sarebbe completamente solo!” rispose Adele.
“Qual è il motivo che ti spinge a fare tre volte al giorno la strada fi-no alla casa, se lui non ti paga neppure?”
“Mia madre ha lavorato per lui e per i suoi genitori per tutta la vita ed io sono cresciuta nella casa…ricordo che erano anni felici e che il signore era buono e gentile con noi…” spiegò Adele.
“Le cose sono cambiate da due anni a questa parte e tu non puoi continuare a sacrificarti per lui. Devi pensare a tuo padre, così fa-cendo rischi di trascurarlo!” l’ammonì mia madre.
Adele sorrise come faceva di solito, quando qualsiasi parola non sarebbe servita e mia madre rispose col suo sorriso compassionevo-le.
Quando la ragazza finì di sistemare il cestino e fece per andarsene, mia madre la fermò.
“Se solo ritornasse quello di un tempo, potrebbe offrire tanto lavoro a noi del paese! Ricordo che aveva tantissima servitù e che era pie-no di iniziative che portavano giovamento economico a tutti quan-ti!” esclamò nostalgica.
“Sarebbe bello!” gridai entrando da dietro la porta e facendo sob-balzare mia madre.
“Quando la smetterai di origliare?”
“Non stavo origliando, stavo spiando!” corressi.
“Magari ci sarebbe un lavoro anche per me!” incalzai.
“Non credo proprio… se la situazione non è cambiata per tutto questo tempo, non credo cambi proprio adesso!” sentenziò mia ma-dre tenendosi i fianchi con le mani.
“Adesso devo andare, ma gli parlerò…gli parlerò di te!” disse Ade-le “Sei un ragazzo simpatico e volenteroso! Porteresti tanta alle-gria!” e se ne andò, con la sua vestaglia a fiori e gli zoccoli indi-sponenti.
Io mi voltai verso mia madre, con gli occhi raggianti.
“Non ci sperare!” mi consigliò lei, “Sono anni che ha licenziato la servitù e che tutto è morto in quella casa e sulla collina!”
“Dopo la morte della moglie, intendi?”
“Esatto. Fu un duro colpo per tutti. Una donna così bella e giovane! Lui non si è più ripreso da quella perdita…si è lasciato morire tra-scurando se stesso ed il mondo!” mi spiegò.
“Ma non è morto! È vivo!” corressi.
“È il fantasma di se stesso…vive al buio e non mette piede fuori di casa, se non fosse per Adele che gli porta da mangiare, sarebbe già morto e sepolto!”
E così pensai che l’unica speranza di restare ancora in paese, con mia madre, fosse proprio la possibilità di trovare lavoro come in-serviente per la casa che non si vede…aspettai, giorno dopo giorno ma Adele continuava a dire che non era ancora il momento e che dovevo aspettare che l’umore del signore fosse migliorato un po’, prima che lei gli potesse parlare di me. Io non avevo più molto tempo e così decisi di andare da solo a chiedergli lavoro…
E adesso ero sul muricciolo ad aspettare…cercavo con gli occhi verso la collina che giungesse Adele con qualche buona notizia. Si-curamente avevo peggiorato la situazione con la mia incursione nella casa, forse in modo irrimediabile, ma quando vidi comparire Adele con il suo cestino al braccio, sperai che il suo sorriso signifi-casse qualcosa di buono.
“Allora?” gridai prima ancora che potesse essermi abbastanza vici-na. Balzai giù dal muretto e le corsi incontro.
“Allora, Adele?” la esortai.
“Il signore era di cattivo umore!” disse abbassando la testa e conti-nuando a camminare verso il paese.
Io la seguivo nervoso.
“È sempre di cattivo umore, no?”
“Oggi particolarmente! Non mi ha rivolto parola e da ieri sera non ha toccato cibo!” spiegò lei.
“Quindi?” provai a chiederle.
“Non ti sembra sufficiente?” mi gelò.
Io mi arrestai sul sentiero, lasciandola andare. Pensai alla città. A dire addio alla mamma. Alla valigia di cartone con dentro niente di significante, perché niente avevo da portare, niente di mio, nessuna storia, nessun ricordo. Ero diretto verso il niente, dal niente. Cosa ne sarebbe stato di me?
“Allora?” si voltò accorgendosi di avermi distanziato “Che fai fer-mo li? Vieni!”
Non capivo.
“Hai delle discrete possibilità!” gridò poi, sorridendo veramente.
“Ma…che vuoi dire? Come?” balbettai.
“È così…! Andiamo, sbrigati!” mi esortò.
Io la raggiunsi aspettando spiegazioni.
“Gli ho parlato di te e di quanto hai bisogno che lui ti dia questo la-voro!”
“Ma come, se mi hai detto che non ti ha rivolto parola, come hai fatto a parlargli di me?” le chiesi incredulo.
“Infatti, non ti ho detto che mi ha risposto, è rimasto tutto il tempo in silenzio…non ci potevo credere!”
“Adele, tu sei matta! A furia di stare con lui hai perso qualche ro-tella!”.
“Tu non lo conosci…si sta intenerendo…o forse questo non è il termine adatto…però direi che qualcosa sta cambiando…”.
“Adele io non ho molto tempo, lo sai! E non posso certo convince-re mia madre a non mandarmi in città solo grazie a ciò che ti sugge-risce il tuo sesto senso!” la rimproverai.
“Devi solo temporeggiare…lasciami qualche giorno!”
“Io non so che cosa tu abbia in mente, ma, se tu riuscissi, ti giu-ro…”.
“Non giurare o promettere …non porta niente di buono…!” mi strizzò l’occhio.
“Te ne sarò grato…davvero!”
“Ricorda che non sarà facile lavorare per il signore. Dovrai muo-verti per la casa come un fantasma…lui non dovrà accorgersi di te…in un certo senso…dovrai essere discreto e rispettare le sue re-gole…non so se sia esattamente quello che desideri…non credi che in città troveresti qualcosa di più adatto a te…tu sei un ragazzo giovane e pieno di vita…non vorrei vederti sfiorire là dentro com’è successo a me!”.
Adele rallentò, come se qualcosa l’avesse trattenuta e si assentò con la mente. Stava pensando alla sua vita, a quanto era cambiata da due anni a quella parte. Credo che si stesse sentendo in col-pa…non voleva farmi del male.
“Tu dici che sono pieno di vita…e forse hai ragione…o me-glio…credo che avrò tanta vita ancora davanti…ma il senso di vita che intendi tu è quello di vitalità, di gioia di vivere ed io ho paura che la perderò…lasciare mia madre, questo paese, la gente che ho sempre avuto intorno, gente semplice, come lo sei tu…mi devaste-rebbe…lavorare in una fabbrica, sentirmi un numero, uno dei tanti nella moltitudine anonima del traffico, delle macchine, del caos.
Io non sono fatto per quel mondo…io sono stato cresciuto con la mentalità piccola di un ambiente piccolo, dove la gente si chiama per nome e la vita di ognuno è sfacciatamente messa in strada senza vergogna. Dove le persone non chiedono permesso, ma si aiutano con affetto fraterno e sono tutte nella stessa barca.
Io ho paura di perdere tutto questo…di scordare il viso di mia ma-dre…l’odore del pane la domenica…dei panni stesi ad asciuga-re…le corse nei cortili…il mio sguardo da bambino…”.
“Da bambino impunito!” mi corresse Adele, come strappandosi a un torpore pesante… “Forse ci vuole proprio qualcuno come te in quella casa, per far si che le cose cambino!”
Io fui felice…Adele aveva capito che quello che stava tentando per me era la cosa giusta da fare.
“Dove stai andando?” le chiesi
“A cercare un nuovo vetro per un portafotografie. Ti dice niente?”
“Posso accompagnati?” le chiesi dispiaciuto.
“È il minimo che tu possa fare…”
Ero così felice…felice di niente in fondo…solo sensazioni, speran-ze…
La gente vive di speranze…di emozioni e non si chiede se tutto ciò sia reale o no…se sia concreto o no…ciò che conta è ciò che si av-verte e come lo si avverte…la bellezza, la gioia, il dolore, la di-sgrazia…è tutto soggettivo e tutto relativo al momento in cui lo si vive e lo si subisce…
Forse anche l’amore, ma questo non potevo dirlo…non lo conosce-vo, non lo avevo mai provato…
Andammo dal vetraio, anche se io ero altrove…distante anni lu-ce…col pensiero…tutto era intenso…gli odori della vegetazio-ne…gli schiamazzi dei bambini…le voci che si accavallavano…il profumo di Adele…di sapone di Marsiglia…mi sentivo leggero e avrei giurato che le mie suole non toccavano terra, ma scivolavano a qualche centimetro dal suolo…dentro di me, un uragano premeva per uscire…e non so dire se ero felice…non posso racchiudere tutto ciò che provavo in quest’aggettivo così banale e semplicistico…
Forse ero felice del fatto che potevo ancora sperare…
Adele mostrò al ragazzo della vetreria il portafotografie ed io scorsi la foto che ancora conteneva. Come ricordavo, era il volto di una donna. Il ragazzo prese le misure e si mise a tagliare un rettangolo di vetro. Noi aspettammo fuori dal magazzino, seduti su una panca di legno.
“Posso vederlo?” le chiesi indicando il portafotografie.
Adele me lo passò con cura.
Era una foto in bianco e nero di una ragazza intorno ai venticinque anni. Viso ovale, perfetto. Capelli raccolti, chiari.
Sopraccigli delicati e occhi grandi, quasi trasparenti…Labbra pic-cole ed un sorriso appena accennato. Il collo era sontuoso e delica-tamente scoperto.
La ragazza era ritratta leggermente rivolta verso la sua sinistra, con la spalla destra alzata e la testa un po’ reclinata, come nel gesto di ignorare un complimento con incontenibile piacere e maliziosa ri-trosia.
Pensai a quando ero piccolo e mia madre mi faceva il solletico per invogliarmi a essere più affettuoso…
La ragazza aveva qualcosa di familiare, ma non seppi capire cosa…
Mi sentii ancora più in colpa per aver rischiato, il giorno prima, di rovinare la foto, facendo cadere il portafotografie.
“Ci sono!” gridò il vetraio.
Adele mi prese la cornice dalle mani e tornò da lui. Entrai anch’io, cercai con gli occhi sul bancone e, trovata una risma di fogli di car-ta da imballaggio, presi una matita, una di quelle rosse e blu a due punte e, col blu, ci scrissi velocemente “Niente d’eterno si rompe!” Poi, di scatto, mi voltai verso Adele e le chiesi sventolando il fo-glio:
“Potrei incartarla qui dentro!”
Adele guardò il ragazzo cercando un consenso e lui fece di sì con la testa.
Incartai il portafotografie, facendo attenzione a coprire la scritta che rimase dietro alla cornice, all’interno della confezione. Fermai poi il pacchetto con uno spago.
“Volevo sentirmi utile!” dissi ad Adele mentre glielo porgevo.
“Speriamo che questo gli faccia tornare un po’ di buon umore! Vi-sto che abbiamo poco tempo!” esclamò.
Accompagnai Adele fino al muretto e restammo entrambi in silen-zio, non volevo insistere, continuare a farle pesare una responsabi-lità di cui non era giusto addossarla…anche se lei l’avvertiva tutta e credo che lei non dicesse altro poiché già si era sbilanciata troppo e non voleva che la delusione stroncasse presto l’euforia della spe-ranza.
Prima di salutarmi, mi chiese con un filo di voce:
“Quando dovresti lasciare il paese?”
“Dopodomani!” le risposi, come se realizzassi solo in quel momen-to che avevamo solamente poche ore a disposizione.
“Allora, spero di venire a cercarti prima…se non mi vedrai, capirai perché, ma vorrei comunque poterti salutare, prima che tu te ne va-da!”
Io abbassai la testa. Osservai i suoi piedi negli zoccoli di legno. E-rano delicati, piccoli…pallidamente rosa.
Adele mi scompigliò i riccioli affettuosamente e mi sorrise.
“Dopodomani, qui a mezzogiorno! Ma spero di vederti prima!”
Io la guardai negli occhi di giada. Mi vidi riflesso e, per un attimo, mi tornò davanti agli occhi il viso della ragazza del portafotografie.
“A prima!” la salutai.
Non tornai subito a casa. Mi misi a sedere sul muretto, tra le botti-glie rotte e vecchi manifesti strappati…Pensai a quanto la vita era stata misera con me…mi aveva tolto il padre quando ero ancora piccolo, troppo piccolo per ricordarmi di lui e misera era continua-ta, poiché mia madre si spezzava in quattro per riuscire a tirare a-vanti…Niente ci aveva mai regalato, se non disgrazie e preoccupa-zioni…tutto il bello che restava era fatto di piccoli ritagli che io e mia madre ricavavamo dalla fine del giorno…quando lei tornava stanca, a tavola, per cena, o quando io l’aspettavo a letto, per parla-re un po’…
Ultimamente però sembrava essersi indurita…e so perché…cercava di non tradire la commozione, il dispiacere nel sapere che me ne sa-rei dovuto andare.
Così, fingevamo di essere forti…parlavamo di “dopodomani” come se fosse tra anni e senza mai usare il se… perché sarei andato in cit-tà e avrei trovato lavoro, mi sarei trovato una stanza e mi sarei mantenuto…niente se, nessun però…solo certezze da “dopodoma-ni” in poi…niente più ansie…Lei se la sarebbe cavata da sola e anch’io…i sentimentalismi non portano il pane a tavola…diceva lei…
Saltai giù dal muretto e corsi verso casa…il sole caldo ed il vento tiepido sulla faccia…il sole abbagliante che mi faceva lacrima-re…il sole contro…
Ero libero…in quell’attimo mi sentii libero e capii cosa voleva di-re…forse perché ancora ero sospeso…come un punto interrogativo e così volevo restare…senza costrizioni o destini pronti ad aspet-tarmi dietro la porta. Perché l’uomo deve scegliere una direzione? Perché deve scegliere tra più porte quella che lo condurrà per una strada che non può essere percorsa, poi, nella direzione opposta, senza aver perso niente, irrimediabilmente? Perché esiste il tem-po… ed il tempo cancella…prende e non rende…cambia? Il tempo cambia le cose, da un secondo all’altro…non c’è niente di fermo, neppure il ricordo, poiché anche questo muta col tempo.
Quindi, non ci resta che assaporare fino in fondo l’attimo presente e goderlo fino all’ultima briciola, all’ultima goccia.
In quegli attimi, io mi sentii libero, come non mai…forse perché immaginavo le costrizioni che le scelte da prendere mi avrebbero imposto. Dovevo crescere e tutto si riduceva a questo. Crescere vo-leva dire concretizzare la vita. Radicare la persona come un albero, sicuro di trovare il suo nutrimento dalla terra a cui è aggrappa-to…non importa se verrà trapiantato…cerchèrà la luce allungando-si e protendendo verso la vita. Così si muovono le persone, verso la vita. Solo lui non lo faceva. Sembrava cercasse la fine, sembrava chiamare la calma della morte nelle sue stanze chiuse dall’interno…per mettere fine ad un’attesa snervante, che lo corro-deva e lo invecchiava, che lo sfiancava con i colpi devastanti di pensieri e ricordi paralizzanti. Chi resta aggrappato al passato non vive il presente e non si muove di un centimetro verso il futuro. Chi vive di ricordi è già morto dentro e resta sospeso, mentre tutto scor-re.
Eravamo entrambi sospesi…lui restava immobile ed io, invece, sci-volavo a due centimetri da terra, fiondato verso il futuro ad altissi-ma velocità.
Per me il tempo scorreva velocissimo, per lui era una lenta ed ago-nizzante condanna…ma i nostri piedi non toccavano il suolo. I suoi erano quelli di un impiccato, i miei, quelli di un alpinista che scor-reva lungo una corda, legato ad una carrucola, in pendenza, tra due pareti di montagne.
La porta di casa mi apparve diversa, così come la facciata e le fine-stre…tutta la miseria era scomparsa d’improvviso…quella era la mia casa…dove ero vissuto fino allora e che avrei dovuto lascia-re…mi apparve splendida e ricca, come uno scrigno prezioso…non vedevo più l’umidità alle pareti e il pavimento saltato…le porte scardinate e la desolazione del poco. Cercai lei, come non avevo mai fatto prima. Era seduta alla tavola in cucina che sbucciava i pi-selli, nell’aria di luce. Mia madre alzò lo sguardo e mi salutò con un bagliore degli occhi commossi.
Non era più vecchia, non era più magra fino all’osso, ma la donna più bella e rasserenante della mia esistenza. Mi allungai dall’altra parte del tavolo, tenendomi al bordo con le mani e cercai di rag-giungerla con le labbra, restando in bilico…lei si avvicinò dolce-mente e premette le sue labbra sulle mie. Entrambi bagnati dal ba-gliore del sole…quest’attimo avrei voluto portare con me, ovunque sarei dovuto andare… sentii le lacrime, calde, sulle guance, erano le mie o le nostre insieme? Non importava saperlo…mi distesi sui piselli con le gambe penzoloni e lei mi sgridò, cercando, dal polso della vestaglia, un fazzoletto con cui si tamponò il viso.
“Che sciocco che sei! Alzati…!”
E mi sembrò pronunciare la più grande dichiarazione d’amore che nessuno mi avesse mai dedicato. Perché non hanno nessuna impor-tanza le parole che diciamo, ma quelle che vorremmo dire e che sentiamo col cuore, non con le orecchie. E lei mi stava dicendo che avrebbe voluto tenermi con sé, per tutti i giorni avvenire.
La sera calò piano, come un’anziana che scende dal letto. Io e mia madre parlammo molto…come se ci fossimo accorti di non avere più molto tempo…le chiesi di papà…sapevo che le faceva piace-re…
Io me lo raffiguravo identico a me, solo più vecchio…era il modo più semplice di immaginarlo, anche se la descrizione di mia madre non corrispondeva. Che importa! Anche le poche fotografie rimaste di lui mi davano contro…ma quello che io facevo, immaginandolo, era guardarmi allo specchio e vedermi come sarei stato molti anni dopo, cosa avrei fatto, costruito, chi avrei amato…credevo che non avrei potuto fare altro, pensando a lui…ritrovare in me le sue trac-ce…l’essenza che infuse in me e che aveva permeato la mia ani-ma…
Mia madre lo ricordava spesso, aggrappato allo stipite della porta di cucina, mentre si dondolava e l’osservava in silen-zio…invisibile…fino a quando lei si accorgeva di lui…Lui, con la canottiera bianca a costine e la barba da fare…gli occhi di cobalto e i denti bianchi, sempre in bella mostra…lui, con le fossette vicino alle estremità delle labbra.
Lui, coi pantaloni cachi e i sandali da frate…le unghie sporche e le mani grandi…i peli biondi delle ascelle e l’aria da monello…
“Mi hai spaventato!” gli gridava lei, lanciandogli contro il cano-vaccio o la prima cosa che trovava in cucina…e lui correva da lei a farle il solletico e a straziarla di baci…o premendola contro il la-vandino, a dirle le cose più sconce all’orecchio…
Non mi stupivo della franchezza con la quale mia madre raccontava questi momenti e di come, invece, non parlasse mai della sua ma-lattia o di altre cose, forse più determinanti, della sua vita… io ado-ravo ascoltarla…era come se mi immedesimassi …sorridevo ogni volta che lei rievocava quelle scene e provavo un leggero frizzo all’altezza del coccige… che mi faceva divincolare per i brividi…
A lei mancava come a una pianta manca l’acqua, dopo giorni d’arsura, ma la siccità, per lei, durava ormai da troppo tempo…il terreno era ormai arido, troppo crepato perché si potesse rianimare e intenerire ancora.
Era seccata e viveva solo grazie all’umidità del sudore e delle la-crime…e grazie al suo sole…grazie a me…che gli ero rimasto, ma che me ne sarei andato di lì a qualche giorno.
Sarebbe sopravvissuta?…Avrebbe retto a un’altra perdita?
Appena mi fossi sistemato in città e percepito il primo stipendio, gli avrei spedito dei soldi, insieme a lettere che l’avrebbero rinfranca-ta.
Credo che quello che lei volesse era solo che fossi felice e che po-tessi vivere una vita senza troppe privazioni…una vita diversa dalla sua…credeva di poter fare a meno di me se io fossi stato felice…e non posso darle torno…non ho mai pensato che le sue intenzioni non fossero dettate da altro che dall’amore che provava per me.
Ultimamente, aveva cercato di allontanarmi, di essere più fredda e distaccata, di non piangere o mostrarsi fragile.
Sembrava ferma nella sua decisione e iniziava sempre le sue frasi dicendo “Quando sarai in città…” come se si gongolasse all’idea di sapermi felice, nonostante non avesse la benché minima certezza del mio futuro. Aveva smesso di essere estremamente affettuosa con me e cercava sempre meno il contatto fisico, come per paura di qualcosa che non mi sapevo spiegare o a cui davo solo l’unica scu-sante di non rendere quell’imminente addio troppo melodrammati-co e straziante…per abituarmi al distacco e sminuire il bisogno di stare insieme.
Quante volte mi ripeteva che ero già grande, che ero cresciuto or-mai, per le smancerie e le coccole…che ben presto avrei trovato una bella ragazza in città, mi sarei innamorato e questa avrebbe preso il suo posto…
Io la guardavo e le dicevo che era lei la mia ragazza e che non vo-levo nessun’altra da amare…Allora mi brontolava e sentenziava che mi avrebbe dato qualche mese perché mi dimenticassi di lei.
Insomma, più mia madre provava a fare l’algida o la sostenuta e più tradiva palesi sentimenti opposti…e più otteneva l’effetto con-trario…
Quelli che dovevano essere gli ultimi giorni furono i più duri…
Prima di prendere sonno, quella notte, venne in camera mia e, fer-ma sulla soglia della porta, con la luce della cucina che la incorni-ciava come una sagoma nera, mi disse:
“Dopodomani sarà l’ultimo giorno per te in paese!”
Io non potei vedere i suoi occhi, né tantomeno l’espressione della sua faccia…il tono della voce era quasi catatonico…come quando i bambini imparano a memoria versi di poesie e li ripetono senza la minima espressione, fino allo sfinimento.
“Prenderai la corriera delle dodici e trenta. Ho preso dei contatti con delle persone che ti daranno delle valide indicazioni appena ar-riverai. “
“D’accordo!”risposi con un filo di voce, nascosto dalla sua ombra.
“Ti sto preparando delle cose che ti serviranno e che metterai in va-ligia…domani organizzerai le tue cose, di modo che, per sera, sarà tutto pronto…cosicché il giorno dopo potrai svegliarti più tardi e partire più riposato!” finì mia madre.
“Grazie! Buona notte!” farfugliai.
“Notte” rispose.
E così ebbi la certezza che il giorno dell’addio stava arrivando…era imminente! Pensai ad Adele e mi chiesi se il giorno dopo sarebbe venuta a dirmi che qualcosa era cambiato e i miei programmi sa-rebbero cambiati…non ci credevo quasi più…forse ci speravo, ma avevo paura a farlo.
Spesso la gente ha paura a sperare, ma spera comunque…la spe-ranza è l’ultima cosa a morire dell’uomo…credo che ci accompa-gni nell’aldilà, perché, l’attimo prima di cedere, speriamo che il po-sto dove andremo sia pieno di luce e non rimanga al buio, come quando restiamo ad occhi chiusi, sapendo che non li apriremo mai più.
Il giorno dopo mi svegliai confuso e stordito. Mi sedei sul letto e, solo dopo qualche istante, compresi che quello era l’ultimo giorno che trascorrevo, per intero, in paese. Poi, la prima persona che mi venne in mente fu Adele e, da quell’istante, non smisi un attimo di aspettarla.
Cercai di fare colazione con frutta e latte freddo, mia madre era già fuori a lavoro. Vidi sul tavolo dei pacchetti di provviste ed altre co-se che non ebbi neanche la curiosità di appurare cosa fossero. Poi, il mio sguardo cadde per terra, vicino al lavandino, dove c’era, sventrata, la vecchia valigia di cartone del babbo…quella con le cinghie per chiuderla.
Era vuota…anzi, guardando meglio, trovai nella tasca una fotogra-fia…quella dei miei genitori, ritratti insieme, da giovani…quasi stentavo a riconoscere mia madre…erano felici e ignari…perché le due cose vanno sempre di pari passo…è felice chi ignora il doma-ni!
Presi in braccio la valigia e la portai in camera, gettandola sul letto. Spalancata, come l’avevo trovata. Ci buttai dentro un po’ di cose, i pochi vestiti che avevo…e tutto ciò che poteva servirmi…anche cose poco utili, tanto per riempirla bene ed avere meno la sensazio-ne di essermi dimenticato qualcosa o di non avere tutto il necessa-rio con me.
Non ho mai creduto che i beni materiali possano rendere feli-ci…eppure, mi stavo muovendo proprio per questa motivazio-ne…non è giusto che le persone siano così condizionate dal denaro per sopravvivere, ma è inevitabile.
E stato l’uomo a inventare il denaro e con quell’invenzione si è re-so schiavo, costretto in un meccanismo senza fine di tensione verso il possesso.
Ci sono persone convinte di essere quello che hanno, che giudicano in base a questo, in base ai metri quadrati delle loro case, della marca della loro auto e così via. La cosa stupida è che credono di trovare la felicità nelle cose e non si accorgono che sono spinti dall’insoddisfazione continua per non averla trovata, che li istiga a desiderare ancora una volta.
Io non avevo niente di concreto, nonostante questo, non volevo niente…volevo che mia madre fosse felice…e se dovevo rendermi indipendente economicamente, per far sì che lo fosse, ero pronto a darmi da fare.
Credo che la vera ragione per cui tutto mi risultava così difficile, fosse stata il rifiuto di crescere.
In fondo, io mi sentivo ancora un bambino ed il paese per me era un mondo sufficientemente grande…le persone che chiamavo per nome mi bastavano, come gli orizzonti e la porzione di cielo che avevo visto…non avevo esigenze di posti nuovi o gente diver-sa…quello che mi incuriosiva non era lo sconosciuto, ma appro-fondire meglio ciò che conoscevo… C’erano già sufficienti storie, posti, realtà da conoscere veramente, fino in fondo…facciate da demolire, cuori da espugnare e luoghi da ascoltare…e segnali im-percettibili da saper cogliere…per conoscere veramente e “posse-dere” veramente…
Questo significava per me “avere”.
Spesso mi affacciavo alla finestra o uscivo in cortile, con qualche scusa, aspettando di vedere comparire Adele…che tarda-va…tardava, se fosse dovuta arrivare…ma chissà…se sarebbe arri-vata…in ogni modo, l’avrei dovuta vedere il giorno dopo a mezzo-giorno, al muretto, per salutarla…pochi minuti e poi sarei dovuto scappare a prendere la corriera di mezzogiorno e mezza… e così si sarebbe concluso un grande capitolo della mia vita, durato diciotto anni.
I minuti passavano e le ore…e sfumava la possibilità…la vedevo passare come un autobus mancato…a rallentatore.
Andai in camera della mamma e mi incontrai allo specchio gran-de…era ovale col piedistallo a terra e due braccia che lo tenevano per il diametro più piccolo e lo ruotavano verticalmente. Da piccolo mi divertivo a parlare al mio riflesso…lo specchio mi conteneva per intero e, con me, anche la stanza…quello, per me, era un altro mondo…con un altro me stesso…con gli anni, lo avevo trascurato e abbandonato…non parlavo più con l’altro me… chissà che stava facendo…?
“Ehi!” lo chiamai “È da tanto che non parliamo un po’…”.
Il ragazzo mi guardava…era cresciuto, era diverso.
I suoi occhi verde acqua mi fissavano dolcemente. Era meno bam-bino…il viso si era sfilato e non era più paffutello…la barbetta, bionda, rada e appena accennata, lo rendeva più virile…Le soprac-ciglia castane, nascoste sotto i riccioli dorati…I capelli sempre or-dinatamente scompigliati…la pelle uniforme e chiara e il corpo de-licato ma tornito…la serafino beige un po’ rovinata…e i pantaloni grandi, con le pences, trattenuti in vita da uno spago e arrotolati alle caviglie…i mocassini vecchi, di pelle. Ero cambiato così tanto fuo-ri, pur restando lo stesso dentro…ero più uomo e ciò mi spaventò…
Mi trovai come davanti ad un’altra persona ed ebbi paura…
Provai ad analizzare ciò che effettivamente era cambiato…l’altezza ed il corpo meno longilineo, la barbetta, ora più definita…ma la co-sa che mi sembrò decisiva, fu l’aspetto delle sopracciglia…sì…le sopracciglia mi rendevano diverso…erano più scure, decise, rispet-to ad anni prima, quando si confondevano quasi col carnato, tanto erano chiare.
Adesso, erano marcate ed estremamente espressive…il verde degli occhi risaltava maggiormente, così incorniciato…anche le ciglia erano più scure, ora che ci facevo caso…e in effetti, la barbetta non era tanto più folta, ma semplicemente più scura, così da sembrare più fitta…mi tolsi, veloce, la serafino e guardai il mio petto…erano spuntati dei peli castani, leggeri e radi e, anche sotto l’ombelico, si era definita una stradina di peli delicati…slacciai lo spago e tirai giù i pantaloni e osservai il mio pube…stentavo a crederci…anche quei peli sembravano più folti e più scuri…possibile che non me ne fossi mai accorto prima?…o che tutto fosse cambiato nel giro di poche ore?
No…ero io che non mi guardavo mai attentamente…non prestavo attenzione alla mia immagine…il mio corpo, nudo, davanti a me…il corpo di un quasi uomo…il petto più gonfio…le braccia forti e le cosce scurite dai peli e più massicce…Dio mio! Stavo di-ventando un uomo…!
Pensai a mio padre…a quanto, in quel momento, gli somigliassi, contrariamente a quanto avessi creduto fino a qualche istante pri-ma…
Per quanto tempo avevo continuato a vedermi bambino, esile e an-drogino…? Non riuscivo proprio a rassegnarmi all’idea di cresce-re…
Mi accarezzai mollemente, per sentire i peli contro le mie ma-ni…sul pube erano più rigidi e fitti…il mio sesso si destò come un cane sonnecchiante che si accerta, alzando la testa, che può dedi-carsi ancora all’ozio…mi rivestii e sorrisi a me stesso…e…baciai le mie labbra, premendole contro il vetro.
Bussarono alla porta.
Adele! Pensai.
Corsi subito ad aprire, quasi scivolando. Era un’amica di mia ma-dre che mi chiedeva come mai quella mattina non era passata da lei, prima di andare a lavoro. Le dissi che era dovuta entrare prima e che quando fosse tornata, le avrei detto di passare a trovarla.
Che delusione!
Non sarei neanche potuto uscire, altrimenti Adele non mi avrebbe trovato a casa, qualora fosse venuta a cercarmi…
Ero costretto in casa ad aspettare.
I minuti passavano e le ore…e la possibilità sfumava, come l’alone di respiro su un vetro…
Decisi di mettermi sul letto e dormire un po’…inutile! Rimasi a fis-sare il soffitto…a pensare al tempo.
Il tempo è un’invenzione dell’uomo…un modo per complicarsi la vita e tenere sotto controllo gli eventi…ma è un’invenzione inutile, perché gli eventi non si possono prevedere. È così semplice, in fon-do, il mondo! Le complicazioni della vita sono tutte nostre inven-zioni…il tempo, ad esempio, porta ordine ma, insieme, anche ansie, attese, ritardi. Non potremmo immaginare il mondo, senza una scansione temporale, ma, se ci pensiamo bene, il tempo è solo uno stratagemma per fuggire al presente…per vivere di ricordi o di a-spettative…spesso il presente è deludente e così ci rifugiamo nel passato o ci proiettiamo nel futuro, sempre alla ricerca di felicità. Così facendo, però, perdiamo di vista ciò che ci accade ades-so…non gli diamo importanza, lo avviliamo, non lo viviamo fino in fondo…e quello è il vero tempo perso. Non quello di un passato che ormai non tornerà ed è inutile ricordare…Non quello di un fu-turo che non ci dà certezze ed è inutile prevedere. Il tempo perso è quello sprecato a pensare troppo al passato o al futuro…è il presen-te che sfugge.
Così, mi decisi a non pensare a quello che sarebbe stato, a quello che fu…io ero disteso sul letto a guardare il soffitto, in quel mo-mento, e non stavo vivendo.
Ero sospeso…di nuovo…
Saltai giù e, coi piedi scalzi, avvertii il freddo del pavimento di pie-tra infiltrarsi velocemente nella carne.
Ero vivo, ancora.
Andai in cucina e mangiai con un appetito incredibile…
Frutta e verdure crude in pinzimonio.
Poi tornai in camera di mia madre e cercai nell’armadio l’unico abito del babbo. Giacca e pantaloni marroni…l’ indossai con la lo-ro camicia beige e la cravatta verde con cui erano in gruccia. Poi andai in bagno a bagnarmi le mani e a passarle tra i capelli, petti-nandoli all’indietro, e mi avvicinai lentamente allo specchio…
Assomigliavo incredibilmente alla foto di mio padre…quella che avevo trovato in valigia, in cui era ritratto con mia madre. Indossa-vamo gli stessi vestiti e lo stesso sguardo da mascalzone…i soprac-cigli erano gli stessi, il taglio degli occhi e la luce in fondo ad essi.
Allo specchio ero di fronte a lui…lo stavo incontrando per la prima volta…era quello l’effetto che da sempre avrei voluto prova-re…l’emozione che il destino mi aveva tolto.
Accarezzai la faccia fredda e liscia…che si piegava dolcemente e mi scrutava e mi seguiva per studiarmi, perché troppo tempo era passato e non voleva più perdermi…
Quella faccia lontana era tornata per me…per essere raccolta dalle mie mani e essere affiancata alla mia…appoggiata, attacca-ta…fredda e liscia…la superficie dello specchio prese calore ed io trovai consolazione…
Mi addormentai felice, sul letto di mia madre…vestito come mio padre…rivolto alla finestra.
Quando mia madre entrò in camera, mi svegliò bruscamente, gri-dando:
“Oh, mio Dio!”
Mi voltai di scatto e la vidi terrorizzata, con le mani alla bocca e gli occhi sgranati. Iniziò a singhiozzare nascondendosi la faccia con le mani.
“Scusami…”provai “non volevo spaventarti!”.
Lei cercò di calmarsi e si mise a sedere sul letto per non cadere a terra.
Io l’abbracciai e sentii le lacrime calde sulla spalla…
“Ho pensato che…ho creduto che tu…” provò a dire…
Io le tenevo la testa e le chiesi di non parlare…non c’era bisogno di spiegazioni…entrambi avevamo capito all’improvviso che mio pa-dre non se n’era mai andato…non ci aveva mai abbandonati davve-ro…aveva lasciato in noi, in me, la sua traccia, il suo seguito…
“Voglio che domani tu parta vestito così…” bisbigliò mia madre tra i singhiozzi…
Io non risposi, perché lei sentì comunque il mio sì senza voce.
La mattina dell’ultimo giorno, riuscii a dormire di più…mi svegliai alle dieci…e i rumori in cucina mi rincuorarono…la mamma era a casa…aveva chiesto di entrare a lavoro più tardi per potermi saluta-re…corsi da lei…
“Buon giorno!” la salutai…lei restò rivolta verso la finestra, conti-nuando a lavare le stoviglie al lavandino e non si voltò.
“Buon giorno!” rispose dopo qualche secondo, con la voce rotta dalla commozione.
Stava piangendo, ma non voleva che la vedessi …così feci colazio-ne, come se niente fosse.
Appena si riprese, iniziò a darmi indicazioni su come mi sarei do-vuto muovere, appena arrivato in città. Aveva calcolato tutto e mi chiedeva ogni minuto se la stavo seguendo, se avevo capito esatta-mente, se mi sarei ricordato i nomi delle persone e i posti che avrei dovuto incontrare.
Io annuivo, ma in realtà non avrei potuto memorizzare tutte quelle informazioni che mi stava rovesciando addosso, come l’improvviso rigurgito di un bambino.
La mia mente vagava lontana…e, se gli avessi dato una collocazio-ne, direi che stava solcando il mare verde della collina, come un vascello spinto dal vento, tagliava una linea ondulata, tra i capelli d’erba fitta…
Guardai ancora la finestra, oltre il vetro, cercando qualco-sa…cercando Adele che non arrivò.
Non arrivò col suo sorriso a dirmi che dovevo restare…
Ancora in mutande e canottiera, vagai per la casa, come per saluta-re le stanze…le pareti dove avevo scritto la mia breve storia…i sof-fitti dove avevo proiettato i miei sogni…il pavimento dove mi ero strusciato quella prima volta…alla ricerca di cosa non conosce-vo…le finestre delle attese…la vasca dei bagni nei pensieri…
Le cose hanno mille significati. Anche se a prima vista sembrano inespressive o inutili…sono invece pregne di senso…le cose che abitualmente ci circondano…si caricano delle nostre energie, delle nostre emozioni…tutte assorbono…come una spugna…e noi scambiamo energie con l’esterno…perché non siamo impermeabili, ma facciamo parte del tutto e siamo composti della sua stessa mate-ria…
Se imparassimo questo, capiremmo quanto è importante stare bene nel posto dove passiamo più tempo…quanto è importante che ci as-somigli, che ci stimoli, che ci dia energie positive…
Io lasciavo quel posto…quel posto di una vita, per poi trovarmi in un luogo sconosciuto, alla ricerca di un angolo per me…dove rico-noscermi e trovare una collocazione…
Di questo avevo terrore…di non esserne capace e di finire per sen-tirmi straniero…in fondo, non conoscevo niente della città…avevo solo le storie della mamma come promemoria…ma le cose in città cambiano in fretta e chissà se quello che mi raccontava lei, ormai, fosse solo una vecchia fotografia che non somigliava più alla realtà.
Mi vestii con gli abiti del babbo, mente mia madre mi spiava, attra-verso la porta aperta dalla cucina.
Cercai nell’armadio una cintura, per stringere in vita i pantaloni un po’ grandi e li arrotolai alle caviglie, poiché troppo lunghi e perché quello era il mio modo di vestire…da campagnolo!
Il nodo della cravatta, che non doveva mai essere sciolto poiché né io, né mia madre sapevamo rifarlo, a forza di allentarlo e stringerlo, era diventato inguardabile…anche il collo della camicia era un po’ grande, come le spalle della giacca…decisi di tenerla in brac-cio…faceva caldo, mi giustificai!
“Come stai bene!” disse, sincera, mia madre…
Io sapevo di essere un po’ ridicolo…ma non importava…lei aveva lo sguardo raggiante e commosso nel guardarmi…
Credo sia stata ancora più dura, per lei, dovermi salutare, vedermi andare via, così vestito…
Sarebbe stato come perdere per la seconda volta suo marito e per la prima volta me, contemporaneamente.
Portai la valigia vicino alla porta…le partenze sono anche nuovi i-nizi, pensai cercando di farmi forza e poi decisi che dovevo av-viarmi al muretto, dove avrei incontrato Adele, per salutarla.
Preferii vederla così…stavo semplicemente andando a salutare A-dele.
“Te ne vai così presto?” chiese mia madre convinta di sbagliarsi.
“Sì, devo passare a salutare una persona!” le risposi. Non volevo dirle che avrei visto Adele…non mi andava pensasse che fossi an-cora aggrappato a quella possibilità o che non fossi deciso a partire.
“Ti eri fatto la ragazzina, allora?” mi chiese cercando di fingersi al-legra, “sei sempre stato riservato e misterioso…!”
Non capii esattamente cosa intendesse, non mi sono mai ritenuto misterioso…e quell’uscita sembrò un modo per confermare a se stessa che ero diventato grande e che avevo già iniziato ad avere segreti ed una vita esclusivamente mia, che non condividevo con lei.
Non le risposi…
La realtà è quello che ognuno immagina e avverte…non qualcosa di oggettivo e palese agli occhi di tutti…di questo ero convin-to…qualsiasi cosa avessi detto, la realtà che lei vedeva era quel-la…forse quella che lei desiderava…perché negargliela…?
Presi il cappello di paglia col nastro nero…e lo premetti sulla testa di riccioli. Ero pronto. Ero pronto?
Cosa importa…mi resi conto che stavo accettando una decisione, che io non avevo mai preso…una strada che non volevo intrapren-dere…una vita che non desideravo…se ero diventato grande, per-ché avrei dovuto obbedire?
Perché a volte il sacrificio per far felice una persona vale più di o-gni altra cosa…sapere che lei era felice per me…e che io sarei stato felice per lei…ma in fondo chi sarebbe stato realmente felice per se stesso?
Non era il momento per pensare…avevo il biglietto della corriera in tasca dei pantaloni…una miriade di nomi nella testa, indirizzi, persone…
Aprii la porta e mi accorsi che il tempo era scivolato via veloce-mente…era mezzogiorno!
Dovevo andare al muretto da Adele e poi correre alla fermata della corriera, da tutt’altra parte del paese.
Guardai mia madre appoggiata all’imbotte della porta, con le mani nelle tasche del grembiule…
Non si faceva avanti per baciarmi…era ancora concentrata nella parte della sostenuta.
Mi slanciai io e la baciai sulla guancia, in modo freddo e sbrigati-vo…
Poi mi allontanai…e immaginai cosa stessero vedendo i suoi oc-chi…
Mio padre che se ne andava con la valigia di cartone e l’abito mar-rone…camminava nel sole…tra la polvere bianca…per la seconda volta…verso la città…
Allora fu perché doveva ricoverarsi in una clinica dove avrebbero fatto accertamenti sul suo diabete.
I continui infusi di foglie d’ulivo non servivano a molto…aveva già avuto due infarti e l’ultimo era stato grave.
Mia madre non poteva lasciarmi per accompagnarlo, ero piccolo e così decisero che saremmo dovuti restare a casa ad aspettarlo.
Ma lui non tornò…
Lui non tornò più.
Non importa se le lacrime non vengono versate…se gli occhi non diventano lucidi e la voce non si spezza…la sofferenza non è quella che si vede…non è una dimostrazione…il dolore profondo si av-verte nell’anima e congela il cuore…
Accelerai il passo e arrivai al muretto, dieci minuti dopo mezzo-giorno ma Adele non c’era…Caspita, ma che fine aveva fatto? Ma-gari non si era ricordata dell’appuntamento…io non potevo aspetta-re oltre…dovevo subito correre alla fermata della corriera, altri-menti…basta pensare…basta sperare…dovevo muovermi…la spe-ranza era morta!
Non potevo permettermi di perdere la corriera e deludere mia ma-dre…quell’addio era stato abbastanza tragico da doverlo ripetere…
Diedi l’ultimo sguardo alla collina, alla casa che non si vede e corsi dall’altra parte del paese, alla fermata della corriera.
Arrivai col fiatone alla fermata…un attimo dopo arrivò la corriera, alzando un polverone nebbioso nella strada bianca e rovente…
Per qualche istante credei di essere in un luogo mistico, per tanta luce e sfocatura…il bianco sembrava aver dissolto le forme e i co-lori…è in quel bagliore che emerse…la faccia…la faccia di Adele.
Era visibilmente affaticata, esausta direi…
“Ti ho cercato dappertutto!” disse col poco fiato che le era rima-sto…
Io guardai la corriera ferma, che mi aspettava al lato della strada.
“Adele, mi dispiace ma devo andare!” le dissi senza togliere lo sguardo dalla corriera e andandole in contro.
Mi sentii afferrare il braccio. Mi voltai verso Adele.
L’autista della corriera si affacciò al finestrino e gridò guardando-mi:
“Allora? Ti vuoi muovere?”
“Se ne può andare!” rispose Adele gridando…prima ancora che po-tessi capire…
L’autista diede gas e ci lasciò nella polvere bianca…
Attonito, aspettai che svanisse quell’alone d’incanto.
Adele mi sorrideva…
“Ti ho aspettato al muretto, ma quando ho visto che tardavi, non ho potuto desistere dal cercarti a casa, dove tua madre mi ha detto che avresti preso la corriera per la città, così ti ho raggiunto qui!” spie-gò.
“Adele! Forse non capisci? Mi hai fatto perdere la corriera…solo perché volevi salutarmi!” le gridai su tutte le furie…
“Non perché volevo salutarti, ma perché volevo parlarti!” si spiegò.
“È lo stesso, non mi sembra un motivo valido…potevi scriver-mi…o comunicare attraverso mia madre!” continuai io alterato e gettando la valigia a terra per sedervi sopra.
“Non ha importanza, ciò che conta è che ho fatto in tempo.” Cercò di tranquillizzarmi.
“Io no però…e per colpa tua!” le dissi imbronciato con le braccia incrociate.
Lei si inginocchiò per guardarmi negli occhi.
“Parla, su! Sono curioso di sapere cosa dovevi dirmi di così impor-tante!” la esortai.
Dopo un profondo respiro iniziò:
“ Il signore è stato di malumore tutto il tempo…e non mi ha quasi mai rivolto la parola…non aveva neppure aperto il pacchetto col portafoto aggiustato, fino a stamani.”
“Comportamento imprevedibile…Adele! Cosa c’è di interessante in quello che mi stai dicendo?” le chiesi incredulo.
“Ma stamani…mi ha chiamata…io l’ho raggiunto, per la prima vol-ta nella sua camera…era seduto sul letto, con la cornice davanti a sé e la carta della confezione spalancata sulla coperta. Non s’è nep-pure voltato, quando mi ha sentita entrare…mi ha semplicemente chiesto se c’era qualcuno, con me, dal vetraio…io non sapevo cosa rispondergli e gli ho detto che ero da sola, allora mi ha ripetuto la domanda, come se si fosse accorto che stavo mentendo…così gli ho detto che c’eri anche tu…”.
“Adele!” la fermai, “sinceramente non ha nessuna importanza…!”
“Invece ne ha…poiché appena gli ho detto la verità mi ha chiesto di chiamarti…!” mi disse entusiasta.
“Per che cosa…? Forse pensa che abbia ripagato io il vetro della cornice e mi vuole ringraziare?…ma si sbaglia…e poi adesso non conta più…”.
Adele mi afferrò per le spalle azzittendomi e mi disse:
“Forse non hai capito! Sei assunto!” mi gridò in faccia esplodendo di contentezza.
Io la guardai incredulo, senza realizzare…i miei abiti erano com-pletamente matidi di sudore e mi sembrava di respirare ancora la polvere alzata dalla corriera. La sentivo nelle narici e in bocca.
Avvertivo il tessuto bagnato della camicia, attaccato alla pelle e i riccioli alla fronte…mi scoppiava la testa dentro al cappello…lo tolsi con un gesto di ribellione e mi allentai la cravatta sbottonando il colletto.
Ero assunto.
Ero assunto!
Scoppiai a ridere di fronte alla faccia esitante di Adele…poi anche lei mi seguì e le nostre risate e grida ingoiarono qualsiasi altro ru-more, rimbombando come in una stanza vuota…Ero assunto!
Balzai in piedi e l’abbracciai e le risate si trasformarono in sin-ghiozzi, in un fragoroso pianto di gioia…lei mi teneva stretto e i sudori si confusero…i respiri e le lacrime…e i capelli e le nostre anime…
Eravamo felici…all’unisono…
Non c’è niente di più bello della felicità condivisa…perché in realtà non è una felicità a metà, ma una felicità doppia…doppiamente po-tente e vibrante…doppiamente reale.
Appena ci fummo staccati, ci guardammo per dirci in silenzio, con lo sguardo, tutto ciò che era superfluo da dire, ma essenziale da comunicare…Lei capì che le ero grato ed io, che lei era felice, non solo per il fatto che avessi trovato lavoro e non fossi più costretto ad andare in città, ma perché avrei condiviso con lei quella sua missione e vocazione…e non sarebbe più stata da sola a combattere e forse perché la speranza che le cose all’interno della casa potesse-ro cambiare era sempre meno una chimera e si stava trasformando in un progetto concreto.
Lei, con la mia valigia ed io, con la giacca e il cappello da un lato e la mano nella sua dall’altro, ci avviammo verso la casa che non si vede. Incontrammo la gente del paese e le facce di sempre e gli an-goli che conoscevamo come le nostre tasche…tutto era estrema-mente unico. Era un mondo che ci osservava…che si accorgeva della nostra felicità e la rispecchiava…
Poi arrivammo al muretto e quel posto ci fece sorridere…era il po-sto dell’attesa…per entrambi…il confine tra il paese e quella casa che ci avrebbe visti condividere il nostro tempo, da quell’istante in poi…avrebbe contenuto le nostre anime…
Ci lasciammo alle spalle quel bordo di pietre, salutandolo col pen-siero…e ci immergemmo nel mare d’erba alta, insieme…
Io con lei mi sentivo al sicuro…e la lasciai guidare quell’innovativa imbarcazione, tra le onde innocue e scintillanti…liquide chiome smeraldo…
Appena davanti alla casa…sulla ghiaia, cercai quel cerchio di gior-ni prima…era ancora lì, a formare una specie di punto interrogati-vo…entrammo dall’ingresso secondario, come si addice al persona-le di servizio e piombammo nel buio e nel freddo.
Non li ricordavo così acuti e densi.
“Aspetta qui!” mi chiese lei.
Ero in cucina e cercai con la vista, ora adattata alla penombra, le cose che avevo già visto e quelle che non ero riuscito a scorgere la volta precedente…il tavolo col piano di marmo…il lavandino…
Mi sedei sulla sedia a dondolo e guardai la valigia per terra…le mie scarpe bianche di polvere…veloce, ci passai sopra la mano e poi corsi al lavandino a sciacquarla…mi scarruffai i riccioli e mi sfilai la cravatta col nodo orrendo, mi arrotolai le maniche e rimborsai la camicia nei pantaloni…
“Amedeo…” era Adele appena entrata in cucina”…ti accompagno su dal signore!”
Io feci per prendere la valigia, come reazione istintiva…
“Credo che tu la possa lasciare qui!” disse sorridendo.
Ero impacciato ed emozionato…quell’uomo non era certo il tipo che mette a proprio agio le persone…l’ansia saliva insieme a me sulle scale di pietra…
Nel buio di un corridoio persi l’orientamento…ma seguii i passi di Adele... grazie ai suoi zoccoli rumorosi. Si fermò di fronte a quella che immaginai essere una porta, alla quale bussò…aperto un sottile spiraglio, mi sussurrò di entrare e se ne andò.
Io rimasi solo e non seppi cosa fare…Sì, lo so, dovevo entrare, ma non ero pronto, avevo paura…non riuscivo a…
“Avanti!” disse violenta quella voce spazientita.
Entrai, con lo stesso coraggio con cui un aspirante suicida preme il grilletto.
Mi feci forza e continuai a dividere quella pelliccia, come la coda di un pettine che traccia la riga tra i capelli. Lentamente i colori sembrarono spengersi, così come i suoni…il fruscio, i sussurri del vento. Tutto andò attenuandosi, così l’erba si diradò e caddi in uno spiazzo vuoto. La luce ingoiò la paura e mi sentii stordito e solleva-to. Guardavo la ghiaia bianca che abbagliava e non mi accorsi subi-to che mi trovavo proprio di fronte alla casa. Alzando lo sguardo, un’ombra, all’improvviso, mi investì, come se il sole fosse corso dietro la collina a nascondersi e la casa avesse gettato il suo mantel-lo d’ombra su di me. Non capii e per un attimo non svenni. D’improvviso, freddo. La facciata grigia e cupa mi fissa-va…serrata. Come una fortezza inespugnabile, come un cuore du-ro. I rampicanti la ricamavano di riccioli e ragnatele, come a difen-derla…come a soffocarla. Salivano alti fino al tetto…uscivano ed entravano attraverso gli interstizi tra i mattoni scoperti. Come un pizzo di lutto sulla casa.
Mi voltai indietro e vidi il muro d’erba alta che vibrava come un incendio. Sarei voluto scappare e scendere subito giù dalla collina. Avvertivo l’alito della casa o del vento sulla nuca e le spalle e lo sguardo fisso che mi spingeva giù.
Mi voltai ancora, senza alzare i piedi da terra, facendo un cerchio nella ghiaia e, di fronte all’imponenza severa di quella casa, mi sentii congelare…ma, come rompendo un incantesimo, feci il pri-mo passo…quello che fu il primo passo verso l’ignoto. Avevo de-ciso. E così cambiarono il cielo e le stelle e i destini e i futuri e i moti e le leggi. Così cambiò la mia vita, per un passo che era un tentativo…una risposta…una sfida alla paura.
Mi avvicinai all’immensa porta e cercai, tra le foglie d’edera, il bat-tente. Provai ad afferrarlo per alzarlo, ma la ruggine e il tempo lo tenevano saldo. Quindi rinunciai e mi decisi a bussare. Il mio pu-gno picchiò sul legno ma le foglie ammorbidirono quel suono cupo e profondo. Dovevo liberare il portone dal verde. Strappai con gesti rapidi e profani quei viticci taglienti e forti e quasi li sentii grida-re…mi fermai, colpevole. Decisi di bussare di nuovo, con più deci-sione. Due boati come tuoni lontani…Silenzio. Silenzio…provai ancora e ancora. E ancora il silenzio sembrò una salvezza irreale.
Cosa avrei dovuto fare? Andarmene? Ancora? Decisi che avrei bussato un’ultima volta e lo feci, con tutta la forza che avevo in corpo, con la disperazione di chi non vuole capitolare. Il boato fu come un muggito infernale. Il portone si schiuse, come crepato da un terremoto e uno spiraglio di buio si aprì davanti ai miei occhi terrorizzati.
Cosa fare? Entrare in quella bocca socchiusa? Nel buio?
Non ci pensai troppo, per paura che i ripensamenti vincessero. Mi aggravai su quell’anta pesante e spinsi con tutto il corpo. Sentivo il legno contro i miei palmi scricchiolare dolorante. La luce entrò vio-lenta e tagliò una figura geometrica di polvere bianca. Tutto era confuso ed evanescente nel chiarore nuovo. Un passo per non cade-re e finii dentro. Dal buio emersero contorni indefiniti e miriadi di grigi diversi e di neri più o meno densi. Mi trovavo nell’ingresso della casa. Una sala grande, con delle scale di pietra larghe e poca mobilia addormentata sotto una coperta di polvere. Un tavolino for-se…e chissà quanto altro, inghiottito dal nero tutto intorno. Chiesi permesso con una voce che nessuno avrebbe udito. “C’è nessuno?”
Mi sentii così stupido e piccolo. Intruso.
Ero come Orfeo nel regno dei morti. Quello ero.
“È permesso?” gridai senza convinzione.
La luce aveva scolorito il nero e potevo distinguere. Mi guardai in-torno e ovunque vedevo abbandono, morte, risentimento…le mura, il pavimento, la pietra facevano parte di un’immensa tomba che io avevo profanato. Io di luce. Io di vita. Gridai a qualcuno che non c’era. Il silenzio era quello più vero che avessi mai udito. Era as-senza pura.
Mi avvicinai ad un tavolinetto rotondo e cercai di sollevare un por-tafotografie appesantito dalla polvere del tempo. Passai la mano sul vetro di velluto e un volto di donna emerse nel bianco e nero.
“Chi è là?”
Terrore. Una voce. Dall’alto. Vetri rotti. Il portafotografie.
Restai immobile, come impietrito.
“Chi è?” chiese un uomo, se era vivo.
Guardai in cima alle scale, anche se non vedevo niente oltre al ne-ro.
“Mi scusi, non volevo.” Un passo sui vetri. Un passo indietro.
“Chi è?” di nuovo.
“Lei non mi conosce…mi chiamo Amedeo!”
“È un ladro!” incalzò.
“No, per carità!”
“E allora cosa ci fa qui? In casa mia?”
“Volevo parlare con lei.”
“Questa è bella! Lei voleva semplicemente rubare quello che c’era da rubare, ma non si aspettava che qui abitasse ancora qualcuno! Lei è un ladro!”
Una figura si affacciò in vetta alle scale, emergendo dall’oscurità. Un uomo in vestaglia, senza colori. Un’immagine antica e flebile.
“Le giuro che si sta sbagliando! Sono qui per parlarle!” provai.
L’uomo acquistava sempre più nitidezza e potei decifrare meglio la sua fisionomia. Era alto e longilineo. Barba lunga e occhi piccoli. Carnato chiarissimo, quasi splendeva nella penombra. Indossava una vestaglia da camera, in raso bordeaux, legata in vita con un cordone da tenda verde bottiglia, pantaloni del pigiama in seta nera e delle calzature chiuse, da camera, in velluto blu scuro. I capelli neri e impomatati erano pettinati in modo metodico. Divisa su un lato e ciuffo che tagliava la fronte e si fermava dietro l’orecchio de-stro. Le sopracciglia erano folte ma eleganti, decise.
L’uomo mi guardava dall’alto, come se stesse davanti alla cosa più misera che avesse mai visto in vita sua. Io mi sentivo così indifeso e inopportuno. Sarei voluto scomparire. Ma quegli occhi piccoli e luccicanti… Due abissi che mi paralizzavano. Non riuscivo a reagi-re!
“Avanti, dunque! Parli! Cosa sta aspettando!”
Ero imbarazzato e non sapevo da dove iniziare, ma non potevo a-spettare oltre. L’uomo mi fissava, con aria di sfida.
“So che è sprovvisto di servitù da tempo” dissi “ e una casa così grande necessita di personale addetto alla sua manutenzione.”
“Ho licenziato la servitù da anni ormai e questo non la deve riguar-dare!” controbatté.
“Lo so…tutti in paese si chiedono…”
“In paese farebbero bene a non preoccuparsi delle mie faccende! Io non interagisco col mondo esterno e non voglio intrusi in casa mia!” mi fermò.
“Veramente, io credo che potrei esserle utile! So fare il giardiniere. Potrei essere il suo maggiordomo. So fare le pulizie di casa…so servire a tavola!”.
“Con tutte le cose che sa fare, perché è venuto a perdere tempo qui?” mi chiese senza muoversi di un centimetro. Poi continuò:
“Ma certo, dovevo pensarci prima! È stata Adele! Quella non si fa mai i fatti suoi!”
“Adele non c’entra…” corressi.
“Ora se ne vada! Mi ha stancato! Io non ho tempo da perdere!”
L’uomo fece per andarsene.
“Ma come? È lei che sta perdendo tutto il suo tempo!” gridai.
Si bloccò. Di spalle. Il raso della vestaglia, bagnato dalla poca luce rimasta, era l’unico appiglio per il mio sguardo smarrito.
Non volevo perderlo…non volevo che l’ombra l’inghiottisse di nuovo. Non so perché.
Si voltò affacciandosi di nuovo sulle scale. Il suo viso portava una maschera carica di odio.
“Lei non è nessuno! Nessuno per rivolgersi a me in questo modo! Se ne vada e non rimetta più i piedi nella mia casa! Subito!” mi or-dinò l’uomo indicandomi la porta, come un guardiano indica dall’alto del faro una nave all’orizzonte.
Io mi sentii annegare. Ero perso in mare. Scappai via.
Uscii velocemente dalla casa, con le lacrime agli occhi e mi fiondai nel vello d’erba, correndo. Faticosamente avanzavo, scendendo dal-la collina, ma il verde mi tratteneva…era come se l’erba si aggro-vigliasse alle caviglie e mi tirasse indietro…ma non volevo pensa-re…volevo solo uscire da quel posto incantato…inspiegabile. Sen-tivo il vento che mi schiaffeggiava e mi rallentava. Non riuscivo più a vedere chiaramente…le lacrime bagnarono la vista e mi ritro-vai in una palla di vetro, piena d’acqua. L’erba che mi avviluppava.
Caddi perdendo i sensi.
Sospeso.
Così mi sentii quando ripresi i sensi.
Sospeso nel vuoto.
Vuoto nel vuoto.
Lentamente alzai le palpebre e misi a fuoco un volto, nella penom-bra. Adele mi guardava preoccupata, coi suoi occhi di giada. Sorri-se e le sue guance presero a colorarsi di un rosa vivace, come fosse stata lei a svenire.
“Amedeo!” disse con tono di rimprovero, poco credibile “ cosa ti è passato per la mente?”
Io la guardai, facendo finta di non capire, come un bambino rim-proverato, colto in flagrante.
“Ti avevo detto che ci avrei pensato io…che gli avrei parlato io di te! Sai quanto lui odi intrusi in casa…estranei…beh, chiunque oltre a lui a dire il vero!” motivò.
“Io pensavo che…”
“Non dovevi pensare, allora!” disse pizzicandomi la guancia, “co-me ti senti? Va meglio?”
“Credo di sì…anzi, no, non va bene affatto! Sai quanto ho bisogno di un lavoro, Adele!”.
“Se continui così non l’avrai mai questo benedetto lavoro!”
“Cosa intendi? Pensi che ci siano ancora delle possibilità?” chiesi incredulo, prendendola per le spalle.
Ci trovavamo in quella che un tempo fu una cucina. La cucina della casa. Non c’erano dubbi. Era grigia anch’essa. Morta.
Adele mi fissava in silenzio, china su di me, senza parlare.
Lasciai la presa, così si alzò in piedi. Io oscillai su quella che capii essere una sedia a dondolo di vimini. Adele era una donna dolce. Una creatura irreale. Indossava sempre una vestaglia incrociata…lo stesso tipo, in fantasie e colori diversi, come una divisa che, credo, si cucisse da sola. Portava i capelli color cenere raccolti alla nuca in un nido astratto e divertente. Zoccoli ai piedi e una collanina d’argento…a volte un cardigan di lana pesante, con dei grandi bot-toni di cuoio, divisi in quattro da un taglio a croce…credo fosse stato un pullover maschile…tra il blu ed il verde…un colore che si sposava perfettamente con quello dei suoi occhi e del suo carnato roseo. Dimostrava più anni di quelli che aveva, anche se non sape-vo quanti anni avesse, ma l’impressione che dava era quella. Non si è mai sposata o meglio, è sempre stata sola, che io sappia.
“Allora? Credi che sia ancora fattibile?” insistei.
“Certo che sei proprio un bel presuntuoso! Entri in casa della gente senza essere invitato, al buio, come un ladro! Hai rotto persino la cornice con la foto della signora!”.
“Non volevo” provai.
“Sei proprio maldestro! Non potevi aspettare che ci parlassi io pri-ma?”.
Avevo combinato proprio un guaio. Pensavo di fare bene…volevo giocarmela io stesso quell’opportunità ma avevo sbagliato e non avevo scusanti.
“Adele, ti prego!” supplicai “pensaci tu, ti prego!”
“Non ti prometto niente, anzi! Non ci sperare neanche!”
“Adele!” sentii chiamare. Ci voltammo verso la porta. Era lui. La sua voce.
“ Si mette male…!” sussurrò la donna facendomi cenno di stare in silenzio “torno subito, aspettami qui!”
Adele corse fuori dalla cucina lasciando la porta socchiusa ed io mi alzai dalla sedia a dondolo, guardandomi intorno, senza finalmente la paura di sembrare troppo curioso. Nel mezzo della stanza c’era un tavolone di legno decrepito, con sopra un piano massiccio di marmo bianco, un cesto di frutta triste e, alle pareti, vecchie madie, mobili con ante a vetro mentre, alle mie spalle, una cucina grandis-sima, di ferro smaltato, con tutti gli attrezzi possibili ed immagina-bili sparsi ovunque, ma inutilizzati da tempo. Un lavandino di gra-nito, con sotto una tendina a fiori, e le finestre chiuse, serrate. La fioca luce presente proveniva da uno scuretto, appena aperto, che lasciava entrare furtivamente uno spiraglio di vita, debole.
Mi avvicinai alla porta, per provare ad origliare.
“Ti pregherei di non farti venire più in mente idee come questa!” rimproverò l’uomo, “Io non ho bisogno di nessuno…mi sembra chiaro ormai…sono due anni che ho licenziato la servitù e non ho più assunto nessuno, neppure lei…io non capisco perché insista a perseguitarmi con la sua fastidiosa presenza! Non la pago neanche! Non capisce che qui non è gradita! Cosa devo fare per farla desiste-re, la devo maltrattare?”.
“Quello lo fa già da tempo!” puntualizzò Adele “ non capisce quan-to il mio affetto per lei sia sincero e radicato!”
“Francamente incomprensibile! Torni a casa sua…da suo padre e pensi a lui, invece che venire ogni santo giorno qui, a portarmi i suoi cesti di viveri, come una moderna Cappuccetto Rosso!”.
“Non ci posso credere! Lei è veramente un ingrato, ma questo lo sappiamo bene tutti e due! Come sappiamo anche che io sono una cretina! Cretina a preoccuparmi per lei!”
“Io non ho bisogno del suo aiuto, me la cavo bene da solo!” si dife-se l’uomo.
“ Ma certo…tutto il tempo sepolto vivo in questa tomba! A letto o a guardare vecchie fotografie…senza mettere il naso fuori di ca-sa…per di più al buio! A volte ho persino pensato che fosse diven-tato un…come si chiamano? Vampiro! Si!”
“Adele…” silenzio “…per me può bastare così!”
“Guardi che quella che si dovrebbe offendere sono io!”
“Se ne vada!” ordinò la voce cupa.
“Lo sa che è inutile…me l’avrà ripetuto un centinaio di volte, ma io non me ne andrò, o meglio, tornerò ogni giorno…perché lei mori-rebbe qui, senza cibo…solo…”.
“Ma non capisce che è proprio questo che voglio?”
Le voci si erano fatte più lontane, così provai ad allargare lo spira-glio schiuso dalla porta…ma questa cigolò in modo eclatante.
Silenzio.
Terrore.
“Chi c’è?” chiese l’uomo ad Adele.
“Dove? Cosa intende?”chiese lei.
“Intendo chi c’è in cucina! Ma non lo voglio neppure immaginare! Sarebbe folle anche solo pensare che sia quel garzone, suo ami-co…quel ladruncolo che ho sorpreso frugare in casa mia, vero?”.
“Amedeo è un ragazzo perbene!” si difese Adele.
“Non lo voglio in casa mia. Sono stato chiaro? Né lui, né lei! Fuo-ri!”
“Ha solo bisogno di lavorare, la prego…!”
“Fuo-ri! Fuori!”
Sentii i passi di Adele avvicinarsi alla porta e corsi subito a seder-mi. La donna entrò in cucina a testa bassa, si asciugò le lacrime, fe-ce un profondo respiro e sorrise. Mi sorrise.
“È tutto a posto!” mi rassicurò, poco convinta “ ora però è meglio se ce ne torniamo in paese…tra poco sarà buio!”
“Più buio di così?” provai a sdrammatizzare.
Adele sorrise ancora, ma in modo più convincente!
“Già! Su, andiamo!”prese il cesto svuotandolo sul tavolo e il cardi-gan dalla sedia.
“Mi dispiace!” le dissi “è tutta colpa mia! Non avrei dovuto!”
Uscimmo dalla cucina e attraversammo un buio che lei conosceva bene…mi teneva per mano e mi condusse fuori…non so come. In quel breve tragitto avvertii dei brividi su tutto il corpo…paura, di-sagio e qualcos’altro che non capivo…quel buio era vuoto…era as-senza! Avevo solo quel contatto, quella mano calda a rammentarmi la vita…tutto il resto era privo…privo di tutto.
Usciti fuori, la luce esanime della sera sembrò, per i primi secondi, violentissima, come il sole a mezzogiorno. La porta che ci chiu-demmo alle spalle non era quella principale, dell’ingresso.
“Tu passi da qui?” chiesi ad Adele.
“Dalla porta di servizio!” precisò lei, ”io sono una cameriera!”
Non parlammo più per tutta la discesa dalla collina. L’erba non era più scossa dal vento e sembrava districarsi al nostro passag-gio…accarezzandoci dolcemente i polpacci e solleticandoci le braccia. Io seguivo quella donna, come un cane segue il padrone, senza farmi domande. In poco tempo fummo a valle, sul sentiero per il paese. Non sapevo come congedarmi, presto le nostre strade si sarebbero separate, forse per sempre.
“Io…” ruppi il silenzio, “ volevo ringraziarti per quello che hai fat-to per me!”
“Non ho fatto niente!” precisò “mi hai anticipato tu!”
“Beh, si! Dovevo aspettare…ma non credo che sarebbe andata mol-to diversamente!”.
“Forse! Ma non dobbiamo arrenderci!” mi afferrò per un braccio.
“Tu mi devi aiutare!” mi chiese.
“Credevo che fossi tu a dovermi aiutare!” precisai.
“Vediamoci domani, a mezzogiorno, qui, davanti a quel muretto!” disse indicando.
“Cos’hai in mente?” le chiesi intimorito.
“Non ti preoccupare! Domani a quell’ora sarò di ritorno dalla casa che non si vede e ti dirò se il signore ha cambiato idea!”.
“Ma come potrebbe se…”
“A domani!” gridò correndo via la donna.
Rimasi solo e continuai verso il paese. Camminando, mi abbracciai da solo, come cullando un bimbo invisibile…mi coccolavo, pie-gando la testa sulla spalla, in cerca di una carezza…qualcosa era cambiato in me.
Non so dire perché e non lo voglio neppure sapere.
Anche se lo so esattamente, preferisco mentire…
Ho sempre avuto la dote di trasformare la realtà…di renderla mi-gliore e di crederci…io non mi sentivo sconfitto.
Tutto diceva il contrario, ma io sentivo che la porta era ancora soc-chiusa…
Tornai a casa e quasi non rivolsi parola a mia madre…mangiai di fretta e poi mi fiondai sul letto. Spensi le luci e chiusi gli scuri della finestra. Quel buio era diverso. Era meno oscuro e compatto, era blando.
Il buio della casa che non si vede, invece…era reale!
Sedevo sul muro di pietra, sotto il sole cocente, rivolto verso la col-lina della casa. Aspettavo. E pensavo.
Pensavo alla mia vita, non lo facevo spesso. Ho sempre semplifica-to tutto. Le emozioni, i pensieri…ho sempre ridotto tutto in un fon-do ristretto di concretezza…come una pentola lasciata sul fuoco, senza coperchio, la mia vita era diventata una salsa concentrata…
Adesso invece, tutto sembrava più sensibile, il mio corpo, la mia mente…avvertivo l’anima delle cose…e per me erano sensazioni nuove, forse sopite da anni, che esplodevano all’improvviso.
Pensavo alla mia storia, così breve…un ragazzo di appena diciotto anni, cresciuto senza il padre…che aveva conosciuto solo la pover-tà e non si era mai mosso dal paese in cui era nato…
Mi sono sempre arrangiato a fare lavoretti saltuari…aiutavo mia madre nell’orto, ma adesso era venuto il momento di cercarmi un lavoro serio…non potevamo continuare con il solo stipendio di mia madre e, se non avessi trovato niente in paese, sarei dovuto andare in città a cercarmi da vivere.
Probabilmente, il momento di lasciare mia madre era imminente, poiché in paese non c’erano possibilità concrete di lavoro…l’unica speranza che mi era rimasta era, appunto, il signore della casa che non si vede. Sentii parlare di lui per la prima volta qualche settima-na prima, da mia madre, una mattina, quando era venuta Adele per comprare delle verdure e della frutta.
“Ti dai sempre da fare per quell’ingrato?” le chiese mia madre.
“Il signore è buono in fondo, senza di me sarebbe completamente solo!” rispose Adele.
“Qual è il motivo che ti spinge a fare tre volte al giorno la strada fi-no alla casa, se lui non ti paga neppure?”
“Mia madre ha lavorato per lui e per i suoi genitori per tutta la vita ed io sono cresciuta nella casa…ricordo che erano anni felici e che il signore era buono e gentile con noi…” spiegò Adele.
“Le cose sono cambiate da due anni a questa parte e tu non puoi continuare a sacrificarti per lui. Devi pensare a tuo padre, così fa-cendo rischi di trascurarlo!” l’ammonì mia madre.
Adele sorrise come faceva di solito, quando qualsiasi parola non sarebbe servita e mia madre rispose col suo sorriso compassionevo-le.
Quando la ragazza finì di sistemare il cestino e fece per andarsene, mia madre la fermò.
“Se solo ritornasse quello di un tempo, potrebbe offrire tanto lavoro a noi del paese! Ricordo che aveva tantissima servitù e che era pie-no di iniziative che portavano giovamento economico a tutti quan-ti!” esclamò nostalgica.
“Sarebbe bello!” gridai entrando da dietro la porta e facendo sob-balzare mia madre.
“Quando la smetterai di origliare?”
“Non stavo origliando, stavo spiando!” corressi.
“Magari ci sarebbe un lavoro anche per me!” incalzai.
“Non credo proprio… se la situazione non è cambiata per tutto questo tempo, non credo cambi proprio adesso!” sentenziò mia ma-dre tenendosi i fianchi con le mani.
“Adesso devo andare, ma gli parlerò…gli parlerò di te!” disse Ade-le “Sei un ragazzo simpatico e volenteroso! Porteresti tanta alle-gria!” e se ne andò, con la sua vestaglia a fiori e gli zoccoli indi-sponenti.
Io mi voltai verso mia madre, con gli occhi raggianti.
“Non ci sperare!” mi consigliò lei, “Sono anni che ha licenziato la servitù e che tutto è morto in quella casa e sulla collina!”
“Dopo la morte della moglie, intendi?”
“Esatto. Fu un duro colpo per tutti. Una donna così bella e giovane! Lui non si è più ripreso da quella perdita…si è lasciato morire tra-scurando se stesso ed il mondo!” mi spiegò.
“Ma non è morto! È vivo!” corressi.
“È il fantasma di se stesso…vive al buio e non mette piede fuori di casa, se non fosse per Adele che gli porta da mangiare, sarebbe già morto e sepolto!”
E così pensai che l’unica speranza di restare ancora in paese, con mia madre, fosse proprio la possibilità di trovare lavoro come in-serviente per la casa che non si vede…aspettai, giorno dopo giorno ma Adele continuava a dire che non era ancora il momento e che dovevo aspettare che l’umore del signore fosse migliorato un po’, prima che lei gli potesse parlare di me. Io non avevo più molto tempo e così decisi di andare da solo a chiedergli lavoro…
E adesso ero sul muricciolo ad aspettare…cercavo con gli occhi verso la collina che giungesse Adele con qualche buona notizia. Si-curamente avevo peggiorato la situazione con la mia incursione nella casa, forse in modo irrimediabile, ma quando vidi comparire Adele con il suo cestino al braccio, sperai che il suo sorriso signifi-casse qualcosa di buono.
“Allora?” gridai prima ancora che potesse essermi abbastanza vici-na. Balzai giù dal muretto e le corsi incontro.
“Allora, Adele?” la esortai.
“Il signore era di cattivo umore!” disse abbassando la testa e conti-nuando a camminare verso il paese.
Io la seguivo nervoso.
“È sempre di cattivo umore, no?”
“Oggi particolarmente! Non mi ha rivolto parola e da ieri sera non ha toccato cibo!” spiegò lei.
“Quindi?” provai a chiederle.
“Non ti sembra sufficiente?” mi gelò.
Io mi arrestai sul sentiero, lasciandola andare. Pensai alla città. A dire addio alla mamma. Alla valigia di cartone con dentro niente di significante, perché niente avevo da portare, niente di mio, nessuna storia, nessun ricordo. Ero diretto verso il niente, dal niente. Cosa ne sarebbe stato di me?
“Allora?” si voltò accorgendosi di avermi distanziato “Che fai fer-mo li? Vieni!”
Non capivo.
“Hai delle discrete possibilità!” gridò poi, sorridendo veramente.
“Ma…che vuoi dire? Come?” balbettai.
“È così…! Andiamo, sbrigati!” mi esortò.
Io la raggiunsi aspettando spiegazioni.
“Gli ho parlato di te e di quanto hai bisogno che lui ti dia questo la-voro!”
“Ma come, se mi hai detto che non ti ha rivolto parola, come hai fatto a parlargli di me?” le chiesi incredulo.
“Infatti, non ti ho detto che mi ha risposto, è rimasto tutto il tempo in silenzio…non ci potevo credere!”
“Adele, tu sei matta! A furia di stare con lui hai perso qualche ro-tella!”.
“Tu non lo conosci…si sta intenerendo…o forse questo non è il termine adatto…però direi che qualcosa sta cambiando…”.
“Adele io non ho molto tempo, lo sai! E non posso certo convince-re mia madre a non mandarmi in città solo grazie a ciò che ti sugge-risce il tuo sesto senso!” la rimproverai.
“Devi solo temporeggiare…lasciami qualche giorno!”
“Io non so che cosa tu abbia in mente, ma, se tu riuscissi, ti giu-ro…”.
“Non giurare o promettere …non porta niente di buono…!” mi strizzò l’occhio.
“Te ne sarò grato…davvero!”
“Ricorda che non sarà facile lavorare per il signore. Dovrai muo-verti per la casa come un fantasma…lui non dovrà accorgersi di te…in un certo senso…dovrai essere discreto e rispettare le sue re-gole…non so se sia esattamente quello che desideri…non credi che in città troveresti qualcosa di più adatto a te…tu sei un ragazzo giovane e pieno di vita…non vorrei vederti sfiorire là dentro com’è successo a me!”.
Adele rallentò, come se qualcosa l’avesse trattenuta e si assentò con la mente. Stava pensando alla sua vita, a quanto era cambiata da due anni a quella parte. Credo che si stesse sentendo in col-pa…non voleva farmi del male.
“Tu dici che sono pieno di vita…e forse hai ragione…o me-glio…credo che avrò tanta vita ancora davanti…ma il senso di vita che intendi tu è quello di vitalità, di gioia di vivere ed io ho paura che la perderò…lasciare mia madre, questo paese, la gente che ho sempre avuto intorno, gente semplice, come lo sei tu…mi devaste-rebbe…lavorare in una fabbrica, sentirmi un numero, uno dei tanti nella moltitudine anonima del traffico, delle macchine, del caos.
Io non sono fatto per quel mondo…io sono stato cresciuto con la mentalità piccola di un ambiente piccolo, dove la gente si chiama per nome e la vita di ognuno è sfacciatamente messa in strada senza vergogna. Dove le persone non chiedono permesso, ma si aiutano con affetto fraterno e sono tutte nella stessa barca.
Io ho paura di perdere tutto questo…di scordare il viso di mia ma-dre…l’odore del pane la domenica…dei panni stesi ad asciuga-re…le corse nei cortili…il mio sguardo da bambino…”.
“Da bambino impunito!” mi corresse Adele, come strappandosi a un torpore pesante… “Forse ci vuole proprio qualcuno come te in quella casa, per far si che le cose cambino!”
Io fui felice…Adele aveva capito che quello che stava tentando per me era la cosa giusta da fare.
“Dove stai andando?” le chiesi
“A cercare un nuovo vetro per un portafotografie. Ti dice niente?”
“Posso accompagnati?” le chiesi dispiaciuto.
“È il minimo che tu possa fare…”
Ero così felice…felice di niente in fondo…solo sensazioni, speran-ze…
La gente vive di speranze…di emozioni e non si chiede se tutto ciò sia reale o no…se sia concreto o no…ciò che conta è ciò che si av-verte e come lo si avverte…la bellezza, la gioia, il dolore, la di-sgrazia…è tutto soggettivo e tutto relativo al momento in cui lo si vive e lo si subisce…
Forse anche l’amore, ma questo non potevo dirlo…non lo conosce-vo, non lo avevo mai provato…
Andammo dal vetraio, anche se io ero altrove…distante anni lu-ce…col pensiero…tutto era intenso…gli odori della vegetazio-ne…gli schiamazzi dei bambini…le voci che si accavallavano…il profumo di Adele…di sapone di Marsiglia…mi sentivo leggero e avrei giurato che le mie suole non toccavano terra, ma scivolavano a qualche centimetro dal suolo…dentro di me, un uragano premeva per uscire…e non so dire se ero felice…non posso racchiudere tutto ciò che provavo in quest’aggettivo così banale e semplicistico…
Forse ero felice del fatto che potevo ancora sperare…
Adele mostrò al ragazzo della vetreria il portafotografie ed io scorsi la foto che ancora conteneva. Come ricordavo, era il volto di una donna. Il ragazzo prese le misure e si mise a tagliare un rettangolo di vetro. Noi aspettammo fuori dal magazzino, seduti su una panca di legno.
“Posso vederlo?” le chiesi indicando il portafotografie.
Adele me lo passò con cura.
Era una foto in bianco e nero di una ragazza intorno ai venticinque anni. Viso ovale, perfetto. Capelli raccolti, chiari.
Sopraccigli delicati e occhi grandi, quasi trasparenti…Labbra pic-cole ed un sorriso appena accennato. Il collo era sontuoso e delica-tamente scoperto.
La ragazza era ritratta leggermente rivolta verso la sua sinistra, con la spalla destra alzata e la testa un po’ reclinata, come nel gesto di ignorare un complimento con incontenibile piacere e maliziosa ri-trosia.
Pensai a quando ero piccolo e mia madre mi faceva il solletico per invogliarmi a essere più affettuoso…
La ragazza aveva qualcosa di familiare, ma non seppi capire cosa…
Mi sentii ancora più in colpa per aver rischiato, il giorno prima, di rovinare la foto, facendo cadere il portafotografie.
“Ci sono!” gridò il vetraio.
Adele mi prese la cornice dalle mani e tornò da lui. Entrai anch’io, cercai con gli occhi sul bancone e, trovata una risma di fogli di car-ta da imballaggio, presi una matita, una di quelle rosse e blu a due punte e, col blu, ci scrissi velocemente “Niente d’eterno si rompe!” Poi, di scatto, mi voltai verso Adele e le chiesi sventolando il fo-glio:
“Potrei incartarla qui dentro!”
Adele guardò il ragazzo cercando un consenso e lui fece di sì con la testa.
Incartai il portafotografie, facendo attenzione a coprire la scritta che rimase dietro alla cornice, all’interno della confezione. Fermai poi il pacchetto con uno spago.
“Volevo sentirmi utile!” dissi ad Adele mentre glielo porgevo.
“Speriamo che questo gli faccia tornare un po’ di buon umore! Vi-sto che abbiamo poco tempo!” esclamò.
Accompagnai Adele fino al muretto e restammo entrambi in silen-zio, non volevo insistere, continuare a farle pesare una responsabi-lità di cui non era giusto addossarla…anche se lei l’avvertiva tutta e credo che lei non dicesse altro poiché già si era sbilanciata troppo e non voleva che la delusione stroncasse presto l’euforia della spe-ranza.
Prima di salutarmi, mi chiese con un filo di voce:
“Quando dovresti lasciare il paese?”
“Dopodomani!” le risposi, come se realizzassi solo in quel momen-to che avevamo solamente poche ore a disposizione.
“Allora, spero di venire a cercarti prima…se non mi vedrai, capirai perché, ma vorrei comunque poterti salutare, prima che tu te ne va-da!”
Io abbassai la testa. Osservai i suoi piedi negli zoccoli di legno. E-rano delicati, piccoli…pallidamente rosa.
Adele mi scompigliò i riccioli affettuosamente e mi sorrise.
“Dopodomani, qui a mezzogiorno! Ma spero di vederti prima!”
Io la guardai negli occhi di giada. Mi vidi riflesso e, per un attimo, mi tornò davanti agli occhi il viso della ragazza del portafotografie.
“A prima!” la salutai.
Non tornai subito a casa. Mi misi a sedere sul muretto, tra le botti-glie rotte e vecchi manifesti strappati…Pensai a quanto la vita era stata misera con me…mi aveva tolto il padre quando ero ancora piccolo, troppo piccolo per ricordarmi di lui e misera era continua-ta, poiché mia madre si spezzava in quattro per riuscire a tirare a-vanti…Niente ci aveva mai regalato, se non disgrazie e preoccupa-zioni…tutto il bello che restava era fatto di piccoli ritagli che io e mia madre ricavavamo dalla fine del giorno…quando lei tornava stanca, a tavola, per cena, o quando io l’aspettavo a letto, per parla-re un po’…
Ultimamente però sembrava essersi indurita…e so perché…cercava di non tradire la commozione, il dispiacere nel sapere che me ne sa-rei dovuto andare.
Così, fingevamo di essere forti…parlavamo di “dopodomani” come se fosse tra anni e senza mai usare il se… perché sarei andato in cit-tà e avrei trovato lavoro, mi sarei trovato una stanza e mi sarei mantenuto…niente se, nessun però…solo certezze da “dopodoma-ni” in poi…niente più ansie…Lei se la sarebbe cavata da sola e anch’io…i sentimentalismi non portano il pane a tavola…diceva lei…
Saltai giù dal muretto e corsi verso casa…il sole caldo ed il vento tiepido sulla faccia…il sole abbagliante che mi faceva lacrima-re…il sole contro…
Ero libero…in quell’attimo mi sentii libero e capii cosa voleva di-re…forse perché ancora ero sospeso…come un punto interrogativo e così volevo restare…senza costrizioni o destini pronti ad aspet-tarmi dietro la porta. Perché l’uomo deve scegliere una direzione? Perché deve scegliere tra più porte quella che lo condurrà per una strada che non può essere percorsa, poi, nella direzione opposta, senza aver perso niente, irrimediabilmente? Perché esiste il tem-po… ed il tempo cancella…prende e non rende…cambia? Il tempo cambia le cose, da un secondo all’altro…non c’è niente di fermo, neppure il ricordo, poiché anche questo muta col tempo.
Quindi, non ci resta che assaporare fino in fondo l’attimo presente e goderlo fino all’ultima briciola, all’ultima goccia.
In quegli attimi, io mi sentii libero, come non mai…forse perché immaginavo le costrizioni che le scelte da prendere mi avrebbero imposto. Dovevo crescere e tutto si riduceva a questo. Crescere vo-leva dire concretizzare la vita. Radicare la persona come un albero, sicuro di trovare il suo nutrimento dalla terra a cui è aggrappa-to…non importa se verrà trapiantato…cerchèrà la luce allungando-si e protendendo verso la vita. Così si muovono le persone, verso la vita. Solo lui non lo faceva. Sembrava cercasse la fine, sembrava chiamare la calma della morte nelle sue stanze chiuse dall’interno…per mettere fine ad un’attesa snervante, che lo corro-deva e lo invecchiava, che lo sfiancava con i colpi devastanti di pensieri e ricordi paralizzanti. Chi resta aggrappato al passato non vive il presente e non si muove di un centimetro verso il futuro. Chi vive di ricordi è già morto dentro e resta sospeso, mentre tutto scor-re.
Eravamo entrambi sospesi…lui restava immobile ed io, invece, sci-volavo a due centimetri da terra, fiondato verso il futuro ad altissi-ma velocità.
Per me il tempo scorreva velocissimo, per lui era una lenta ed ago-nizzante condanna…ma i nostri piedi non toccavano il suolo. I suoi erano quelli di un impiccato, i miei, quelli di un alpinista che scor-reva lungo una corda, legato ad una carrucola, in pendenza, tra due pareti di montagne.
La porta di casa mi apparve diversa, così come la facciata e le fine-stre…tutta la miseria era scomparsa d’improvviso…quella era la mia casa…dove ero vissuto fino allora e che avrei dovuto lascia-re…mi apparve splendida e ricca, come uno scrigno prezioso…non vedevo più l’umidità alle pareti e il pavimento saltato…le porte scardinate e la desolazione del poco. Cercai lei, come non avevo mai fatto prima. Era seduta alla tavola in cucina che sbucciava i pi-selli, nell’aria di luce. Mia madre alzò lo sguardo e mi salutò con un bagliore degli occhi commossi.
Non era più vecchia, non era più magra fino all’osso, ma la donna più bella e rasserenante della mia esistenza. Mi allungai dall’altra parte del tavolo, tenendomi al bordo con le mani e cercai di rag-giungerla con le labbra, restando in bilico…lei si avvicinò dolce-mente e premette le sue labbra sulle mie. Entrambi bagnati dal ba-gliore del sole…quest’attimo avrei voluto portare con me, ovunque sarei dovuto andare… sentii le lacrime, calde, sulle guance, erano le mie o le nostre insieme? Non importava saperlo…mi distesi sui piselli con le gambe penzoloni e lei mi sgridò, cercando, dal polso della vestaglia, un fazzoletto con cui si tamponò il viso.
“Che sciocco che sei! Alzati…!”
E mi sembrò pronunciare la più grande dichiarazione d’amore che nessuno mi avesse mai dedicato. Perché non hanno nessuna impor-tanza le parole che diciamo, ma quelle che vorremmo dire e che sentiamo col cuore, non con le orecchie. E lei mi stava dicendo che avrebbe voluto tenermi con sé, per tutti i giorni avvenire.
La sera calò piano, come un’anziana che scende dal letto. Io e mia madre parlammo molto…come se ci fossimo accorti di non avere più molto tempo…le chiesi di papà…sapevo che le faceva piace-re…
Io me lo raffiguravo identico a me, solo più vecchio…era il modo più semplice di immaginarlo, anche se la descrizione di mia madre non corrispondeva. Che importa! Anche le poche fotografie rimaste di lui mi davano contro…ma quello che io facevo, immaginandolo, era guardarmi allo specchio e vedermi come sarei stato molti anni dopo, cosa avrei fatto, costruito, chi avrei amato…credevo che non avrei potuto fare altro, pensando a lui…ritrovare in me le sue trac-ce…l’essenza che infuse in me e che aveva permeato la mia ani-ma…
Mia madre lo ricordava spesso, aggrappato allo stipite della porta di cucina, mentre si dondolava e l’osservava in silen-zio…invisibile…fino a quando lei si accorgeva di lui…Lui, con la canottiera bianca a costine e la barba da fare…gli occhi di cobalto e i denti bianchi, sempre in bella mostra…lui, con le fossette vicino alle estremità delle labbra.
Lui, coi pantaloni cachi e i sandali da frate…le unghie sporche e le mani grandi…i peli biondi delle ascelle e l’aria da monello…
“Mi hai spaventato!” gli gridava lei, lanciandogli contro il cano-vaccio o la prima cosa che trovava in cucina…e lui correva da lei a farle il solletico e a straziarla di baci…o premendola contro il la-vandino, a dirle le cose più sconce all’orecchio…
Non mi stupivo della franchezza con la quale mia madre raccontava questi momenti e di come, invece, non parlasse mai della sua ma-lattia o di altre cose, forse più determinanti, della sua vita… io ado-ravo ascoltarla…era come se mi immedesimassi …sorridevo ogni volta che lei rievocava quelle scene e provavo un leggero frizzo all’altezza del coccige… che mi faceva divincolare per i brividi…
A lei mancava come a una pianta manca l’acqua, dopo giorni d’arsura, ma la siccità, per lei, durava ormai da troppo tempo…il terreno era ormai arido, troppo crepato perché si potesse rianimare e intenerire ancora.
Era seccata e viveva solo grazie all’umidità del sudore e delle la-crime…e grazie al suo sole…grazie a me…che gli ero rimasto, ma che me ne sarei andato di lì a qualche giorno.
Sarebbe sopravvissuta?…Avrebbe retto a un’altra perdita?
Appena mi fossi sistemato in città e percepito il primo stipendio, gli avrei spedito dei soldi, insieme a lettere che l’avrebbero rinfranca-ta.
Credo che quello che lei volesse era solo che fossi felice e che po-tessi vivere una vita senza troppe privazioni…una vita diversa dalla sua…credeva di poter fare a meno di me se io fossi stato felice…e non posso darle torno…non ho mai pensato che le sue intenzioni non fossero dettate da altro che dall’amore che provava per me.
Ultimamente, aveva cercato di allontanarmi, di essere più fredda e distaccata, di non piangere o mostrarsi fragile.
Sembrava ferma nella sua decisione e iniziava sempre le sue frasi dicendo “Quando sarai in città…” come se si gongolasse all’idea di sapermi felice, nonostante non avesse la benché minima certezza del mio futuro. Aveva smesso di essere estremamente affettuosa con me e cercava sempre meno il contatto fisico, come per paura di qualcosa che non mi sapevo spiegare o a cui davo solo l’unica scu-sante di non rendere quell’imminente addio troppo melodrammati-co e straziante…per abituarmi al distacco e sminuire il bisogno di stare insieme.
Quante volte mi ripeteva che ero già grande, che ero cresciuto or-mai, per le smancerie e le coccole…che ben presto avrei trovato una bella ragazza in città, mi sarei innamorato e questa avrebbe preso il suo posto…
Io la guardavo e le dicevo che era lei la mia ragazza e che non vo-levo nessun’altra da amare…Allora mi brontolava e sentenziava che mi avrebbe dato qualche mese perché mi dimenticassi di lei.
Insomma, più mia madre provava a fare l’algida o la sostenuta e più tradiva palesi sentimenti opposti…e più otteneva l’effetto con-trario…
Quelli che dovevano essere gli ultimi giorni furono i più duri…
Prima di prendere sonno, quella notte, venne in camera mia e, fer-ma sulla soglia della porta, con la luce della cucina che la incorni-ciava come una sagoma nera, mi disse:
“Dopodomani sarà l’ultimo giorno per te in paese!”
Io non potei vedere i suoi occhi, né tantomeno l’espressione della sua faccia…il tono della voce era quasi catatonico…come quando i bambini imparano a memoria versi di poesie e li ripetono senza la minima espressione, fino allo sfinimento.
“Prenderai la corriera delle dodici e trenta. Ho preso dei contatti con delle persone che ti daranno delle valide indicazioni appena ar-riverai. “
“D’accordo!”risposi con un filo di voce, nascosto dalla sua ombra.
“Ti sto preparando delle cose che ti serviranno e che metterai in va-ligia…domani organizzerai le tue cose, di modo che, per sera, sarà tutto pronto…cosicché il giorno dopo potrai svegliarti più tardi e partire più riposato!” finì mia madre.
“Grazie! Buona notte!” farfugliai.
“Notte” rispose.
E così ebbi la certezza che il giorno dell’addio stava arrivando…era imminente! Pensai ad Adele e mi chiesi se il giorno dopo sarebbe venuta a dirmi che qualcosa era cambiato e i miei programmi sa-rebbero cambiati…non ci credevo quasi più…forse ci speravo, ma avevo paura a farlo.
Spesso la gente ha paura a sperare, ma spera comunque…la spe-ranza è l’ultima cosa a morire dell’uomo…credo che ci accompa-gni nell’aldilà, perché, l’attimo prima di cedere, speriamo che il po-sto dove andremo sia pieno di luce e non rimanga al buio, come quando restiamo ad occhi chiusi, sapendo che non li apriremo mai più.
Il giorno dopo mi svegliai confuso e stordito. Mi sedei sul letto e, solo dopo qualche istante, compresi che quello era l’ultimo giorno che trascorrevo, per intero, in paese. Poi, la prima persona che mi venne in mente fu Adele e, da quell’istante, non smisi un attimo di aspettarla.
Cercai di fare colazione con frutta e latte freddo, mia madre era già fuori a lavoro. Vidi sul tavolo dei pacchetti di provviste ed altre co-se che non ebbi neanche la curiosità di appurare cosa fossero. Poi, il mio sguardo cadde per terra, vicino al lavandino, dove c’era, sventrata, la vecchia valigia di cartone del babbo…quella con le cinghie per chiuderla.
Era vuota…anzi, guardando meglio, trovai nella tasca una fotogra-fia…quella dei miei genitori, ritratti insieme, da giovani…quasi stentavo a riconoscere mia madre…erano felici e ignari…perché le due cose vanno sempre di pari passo…è felice chi ignora il doma-ni!
Presi in braccio la valigia e la portai in camera, gettandola sul letto. Spalancata, come l’avevo trovata. Ci buttai dentro un po’ di cose, i pochi vestiti che avevo…e tutto ciò che poteva servirmi…anche cose poco utili, tanto per riempirla bene ed avere meno la sensazio-ne di essermi dimenticato qualcosa o di non avere tutto il necessa-rio con me.
Non ho mai creduto che i beni materiali possano rendere feli-ci…eppure, mi stavo muovendo proprio per questa motivazio-ne…non è giusto che le persone siano così condizionate dal denaro per sopravvivere, ma è inevitabile.
E stato l’uomo a inventare il denaro e con quell’invenzione si è re-so schiavo, costretto in un meccanismo senza fine di tensione verso il possesso.
Ci sono persone convinte di essere quello che hanno, che giudicano in base a questo, in base ai metri quadrati delle loro case, della marca della loro auto e così via. La cosa stupida è che credono di trovare la felicità nelle cose e non si accorgono che sono spinti dall’insoddisfazione continua per non averla trovata, che li istiga a desiderare ancora una volta.
Io non avevo niente di concreto, nonostante questo, non volevo niente…volevo che mia madre fosse felice…e se dovevo rendermi indipendente economicamente, per far sì che lo fosse, ero pronto a darmi da fare.
Credo che la vera ragione per cui tutto mi risultava così difficile, fosse stata il rifiuto di crescere.
In fondo, io mi sentivo ancora un bambino ed il paese per me era un mondo sufficientemente grande…le persone che chiamavo per nome mi bastavano, come gli orizzonti e la porzione di cielo che avevo visto…non avevo esigenze di posti nuovi o gente diver-sa…quello che mi incuriosiva non era lo sconosciuto, ma appro-fondire meglio ciò che conoscevo… C’erano già sufficienti storie, posti, realtà da conoscere veramente, fino in fondo…facciate da demolire, cuori da espugnare e luoghi da ascoltare…e segnali im-percettibili da saper cogliere…per conoscere veramente e “posse-dere” veramente…
Questo significava per me “avere”.
Spesso mi affacciavo alla finestra o uscivo in cortile, con qualche scusa, aspettando di vedere comparire Adele…che tarda-va…tardava, se fosse dovuta arrivare…ma chissà…se sarebbe arri-vata…in ogni modo, l’avrei dovuta vedere il giorno dopo a mezzo-giorno, al muretto, per salutarla…pochi minuti e poi sarei dovuto scappare a prendere la corriera di mezzogiorno e mezza… e così si sarebbe concluso un grande capitolo della mia vita, durato diciotto anni.
I minuti passavano e le ore…e sfumava la possibilità…la vedevo passare come un autobus mancato…a rallentatore.
Andai in camera della mamma e mi incontrai allo specchio gran-de…era ovale col piedistallo a terra e due braccia che lo tenevano per il diametro più piccolo e lo ruotavano verticalmente. Da piccolo mi divertivo a parlare al mio riflesso…lo specchio mi conteneva per intero e, con me, anche la stanza…quello, per me, era un altro mondo…con un altro me stesso…con gli anni, lo avevo trascurato e abbandonato…non parlavo più con l’altro me… chissà che stava facendo…?
“Ehi!” lo chiamai “È da tanto che non parliamo un po’…”.
Il ragazzo mi guardava…era cresciuto, era diverso.
I suoi occhi verde acqua mi fissavano dolcemente. Era meno bam-bino…il viso si era sfilato e non era più paffutello…la barbetta, bionda, rada e appena accennata, lo rendeva più virile…Le soprac-ciglia castane, nascoste sotto i riccioli dorati…I capelli sempre or-dinatamente scompigliati…la pelle uniforme e chiara e il corpo de-licato ma tornito…la serafino beige un po’ rovinata…e i pantaloni grandi, con le pences, trattenuti in vita da uno spago e arrotolati alle caviglie…i mocassini vecchi, di pelle. Ero cambiato così tanto fuo-ri, pur restando lo stesso dentro…ero più uomo e ciò mi spaventò…
Mi trovai come davanti ad un’altra persona ed ebbi paura…
Provai ad analizzare ciò che effettivamente era cambiato…l’altezza ed il corpo meno longilineo, la barbetta, ora più definita…ma la co-sa che mi sembrò decisiva, fu l’aspetto delle sopracciglia…sì…le sopracciglia mi rendevano diverso…erano più scure, decise, rispet-to ad anni prima, quando si confondevano quasi col carnato, tanto erano chiare.
Adesso, erano marcate ed estremamente espressive…il verde degli occhi risaltava maggiormente, così incorniciato…anche le ciglia erano più scure, ora che ci facevo caso…e in effetti, la barbetta non era tanto più folta, ma semplicemente più scura, così da sembrare più fitta…mi tolsi, veloce, la serafino e guardai il mio petto…erano spuntati dei peli castani, leggeri e radi e, anche sotto l’ombelico, si era definita una stradina di peli delicati…slacciai lo spago e tirai giù i pantaloni e osservai il mio pube…stentavo a crederci…anche quei peli sembravano più folti e più scuri…possibile che non me ne fossi mai accorto prima?…o che tutto fosse cambiato nel giro di poche ore?
No…ero io che non mi guardavo mai attentamente…non prestavo attenzione alla mia immagine…il mio corpo, nudo, davanti a me…il corpo di un quasi uomo…il petto più gonfio…le braccia forti e le cosce scurite dai peli e più massicce…Dio mio! Stavo di-ventando un uomo…!
Pensai a mio padre…a quanto, in quel momento, gli somigliassi, contrariamente a quanto avessi creduto fino a qualche istante pri-ma…
Per quanto tempo avevo continuato a vedermi bambino, esile e an-drogino…? Non riuscivo proprio a rassegnarmi all’idea di cresce-re…
Mi accarezzai mollemente, per sentire i peli contro le mie ma-ni…sul pube erano più rigidi e fitti…il mio sesso si destò come un cane sonnecchiante che si accerta, alzando la testa, che può dedi-carsi ancora all’ozio…mi rivestii e sorrisi a me stesso…e…baciai le mie labbra, premendole contro il vetro.
Bussarono alla porta.
Adele! Pensai.
Corsi subito ad aprire, quasi scivolando. Era un’amica di mia ma-dre che mi chiedeva come mai quella mattina non era passata da lei, prima di andare a lavoro. Le dissi che era dovuta entrare prima e che quando fosse tornata, le avrei detto di passare a trovarla.
Che delusione!
Non sarei neanche potuto uscire, altrimenti Adele non mi avrebbe trovato a casa, qualora fosse venuta a cercarmi…
Ero costretto in casa ad aspettare.
I minuti passavano e le ore…e la possibilità sfumava, come l’alone di respiro su un vetro…
Decisi di mettermi sul letto e dormire un po’…inutile! Rimasi a fis-sare il soffitto…a pensare al tempo.
Il tempo è un’invenzione dell’uomo…un modo per complicarsi la vita e tenere sotto controllo gli eventi…ma è un’invenzione inutile, perché gli eventi non si possono prevedere. È così semplice, in fon-do, il mondo! Le complicazioni della vita sono tutte nostre inven-zioni…il tempo, ad esempio, porta ordine ma, insieme, anche ansie, attese, ritardi. Non potremmo immaginare il mondo, senza una scansione temporale, ma, se ci pensiamo bene, il tempo è solo uno stratagemma per fuggire al presente…per vivere di ricordi o di a-spettative…spesso il presente è deludente e così ci rifugiamo nel passato o ci proiettiamo nel futuro, sempre alla ricerca di felicità. Così facendo, però, perdiamo di vista ciò che ci accade ades-so…non gli diamo importanza, lo avviliamo, non lo viviamo fino in fondo…e quello è il vero tempo perso. Non quello di un passato che ormai non tornerà ed è inutile ricordare…Non quello di un fu-turo che non ci dà certezze ed è inutile prevedere. Il tempo perso è quello sprecato a pensare troppo al passato o al futuro…è il presen-te che sfugge.
Così, mi decisi a non pensare a quello che sarebbe stato, a quello che fu…io ero disteso sul letto a guardare il soffitto, in quel mo-mento, e non stavo vivendo.
Ero sospeso…di nuovo…
Saltai giù e, coi piedi scalzi, avvertii il freddo del pavimento di pie-tra infiltrarsi velocemente nella carne.
Ero vivo, ancora.
Andai in cucina e mangiai con un appetito incredibile…
Frutta e verdure crude in pinzimonio.
Poi tornai in camera di mia madre e cercai nell’armadio l’unico abito del babbo. Giacca e pantaloni marroni…l’ indossai con la lo-ro camicia beige e la cravatta verde con cui erano in gruccia. Poi andai in bagno a bagnarmi le mani e a passarle tra i capelli, petti-nandoli all’indietro, e mi avvicinai lentamente allo specchio…
Assomigliavo incredibilmente alla foto di mio padre…quella che avevo trovato in valigia, in cui era ritratto con mia madre. Indossa-vamo gli stessi vestiti e lo stesso sguardo da mascalzone…i soprac-cigli erano gli stessi, il taglio degli occhi e la luce in fondo ad essi.
Allo specchio ero di fronte a lui…lo stavo incontrando per la prima volta…era quello l’effetto che da sempre avrei voluto prova-re…l’emozione che il destino mi aveva tolto.
Accarezzai la faccia fredda e liscia…che si piegava dolcemente e mi scrutava e mi seguiva per studiarmi, perché troppo tempo era passato e non voleva più perdermi…
Quella faccia lontana era tornata per me…per essere raccolta dalle mie mani e essere affiancata alla mia…appoggiata, attacca-ta…fredda e liscia…la superficie dello specchio prese calore ed io trovai consolazione…
Mi addormentai felice, sul letto di mia madre…vestito come mio padre…rivolto alla finestra.
Quando mia madre entrò in camera, mi svegliò bruscamente, gri-dando:
“Oh, mio Dio!”
Mi voltai di scatto e la vidi terrorizzata, con le mani alla bocca e gli occhi sgranati. Iniziò a singhiozzare nascondendosi la faccia con le mani.
“Scusami…”provai “non volevo spaventarti!”.
Lei cercò di calmarsi e si mise a sedere sul letto per non cadere a terra.
Io l’abbracciai e sentii le lacrime calde sulla spalla…
“Ho pensato che…ho creduto che tu…” provò a dire…
Io le tenevo la testa e le chiesi di non parlare…non c’era bisogno di spiegazioni…entrambi avevamo capito all’improvviso che mio pa-dre non se n’era mai andato…non ci aveva mai abbandonati davve-ro…aveva lasciato in noi, in me, la sua traccia, il suo seguito…
“Voglio che domani tu parta vestito così…” bisbigliò mia madre tra i singhiozzi…
Io non risposi, perché lei sentì comunque il mio sì senza voce.
La mattina dell’ultimo giorno, riuscii a dormire di più…mi svegliai alle dieci…e i rumori in cucina mi rincuorarono…la mamma era a casa…aveva chiesto di entrare a lavoro più tardi per potermi saluta-re…corsi da lei…
“Buon giorno!” la salutai…lei restò rivolta verso la finestra, conti-nuando a lavare le stoviglie al lavandino e non si voltò.
“Buon giorno!” rispose dopo qualche secondo, con la voce rotta dalla commozione.
Stava piangendo, ma non voleva che la vedessi …così feci colazio-ne, come se niente fosse.
Appena si riprese, iniziò a darmi indicazioni su come mi sarei do-vuto muovere, appena arrivato in città. Aveva calcolato tutto e mi chiedeva ogni minuto se la stavo seguendo, se avevo capito esatta-mente, se mi sarei ricordato i nomi delle persone e i posti che avrei dovuto incontrare.
Io annuivo, ma in realtà non avrei potuto memorizzare tutte quelle informazioni che mi stava rovesciando addosso, come l’improvviso rigurgito di un bambino.
La mia mente vagava lontana…e, se gli avessi dato una collocazio-ne, direi che stava solcando il mare verde della collina, come un vascello spinto dal vento, tagliava una linea ondulata, tra i capelli d’erba fitta…
Guardai ancora la finestra, oltre il vetro, cercando qualco-sa…cercando Adele che non arrivò.
Non arrivò col suo sorriso a dirmi che dovevo restare…
Ancora in mutande e canottiera, vagai per la casa, come per saluta-re le stanze…le pareti dove avevo scritto la mia breve storia…i sof-fitti dove avevo proiettato i miei sogni…il pavimento dove mi ero strusciato quella prima volta…alla ricerca di cosa non conosce-vo…le finestre delle attese…la vasca dei bagni nei pensieri…
Le cose hanno mille significati. Anche se a prima vista sembrano inespressive o inutili…sono invece pregne di senso…le cose che abitualmente ci circondano…si caricano delle nostre energie, delle nostre emozioni…tutte assorbono…come una spugna…e noi scambiamo energie con l’esterno…perché non siamo impermeabili, ma facciamo parte del tutto e siamo composti della sua stessa mate-ria…
Se imparassimo questo, capiremmo quanto è importante stare bene nel posto dove passiamo più tempo…quanto è importante che ci as-somigli, che ci stimoli, che ci dia energie positive…
Io lasciavo quel posto…quel posto di una vita, per poi trovarmi in un luogo sconosciuto, alla ricerca di un angolo per me…dove rico-noscermi e trovare una collocazione…
Di questo avevo terrore…di non esserne capace e di finire per sen-tirmi straniero…in fondo, non conoscevo niente della città…avevo solo le storie della mamma come promemoria…ma le cose in città cambiano in fretta e chissà se quello che mi raccontava lei, ormai, fosse solo una vecchia fotografia che non somigliava più alla realtà.
Mi vestii con gli abiti del babbo, mente mia madre mi spiava, attra-verso la porta aperta dalla cucina.
Cercai nell’armadio una cintura, per stringere in vita i pantaloni un po’ grandi e li arrotolai alle caviglie, poiché troppo lunghi e perché quello era il mio modo di vestire…da campagnolo!
Il nodo della cravatta, che non doveva mai essere sciolto poiché né io, né mia madre sapevamo rifarlo, a forza di allentarlo e stringerlo, era diventato inguardabile…anche il collo della camicia era un po’ grande, come le spalle della giacca…decisi di tenerla in brac-cio…faceva caldo, mi giustificai!
“Come stai bene!” disse, sincera, mia madre…
Io sapevo di essere un po’ ridicolo…ma non importava…lei aveva lo sguardo raggiante e commosso nel guardarmi…
Credo sia stata ancora più dura, per lei, dovermi salutare, vedermi andare via, così vestito…
Sarebbe stato come perdere per la seconda volta suo marito e per la prima volta me, contemporaneamente.
Portai la valigia vicino alla porta…le partenze sono anche nuovi i-nizi, pensai cercando di farmi forza e poi decisi che dovevo av-viarmi al muretto, dove avrei incontrato Adele, per salutarla.
Preferii vederla così…stavo semplicemente andando a salutare A-dele.
“Te ne vai così presto?” chiese mia madre convinta di sbagliarsi.
“Sì, devo passare a salutare una persona!” le risposi. Non volevo dirle che avrei visto Adele…non mi andava pensasse che fossi an-cora aggrappato a quella possibilità o che non fossi deciso a partire.
“Ti eri fatto la ragazzina, allora?” mi chiese cercando di fingersi al-legra, “sei sempre stato riservato e misterioso…!”
Non capii esattamente cosa intendesse, non mi sono mai ritenuto misterioso…e quell’uscita sembrò un modo per confermare a se stessa che ero diventato grande e che avevo già iniziato ad avere segreti ed una vita esclusivamente mia, che non condividevo con lei.
Non le risposi…
La realtà è quello che ognuno immagina e avverte…non qualcosa di oggettivo e palese agli occhi di tutti…di questo ero convin-to…qualsiasi cosa avessi detto, la realtà che lei vedeva era quel-la…forse quella che lei desiderava…perché negargliela…?
Presi il cappello di paglia col nastro nero…e lo premetti sulla testa di riccioli. Ero pronto. Ero pronto?
Cosa importa…mi resi conto che stavo accettando una decisione, che io non avevo mai preso…una strada che non volevo intrapren-dere…una vita che non desideravo…se ero diventato grande, per-ché avrei dovuto obbedire?
Perché a volte il sacrificio per far felice una persona vale più di o-gni altra cosa…sapere che lei era felice per me…e che io sarei stato felice per lei…ma in fondo chi sarebbe stato realmente felice per se stesso?
Non era il momento per pensare…avevo il biglietto della corriera in tasca dei pantaloni…una miriade di nomi nella testa, indirizzi, persone…
Aprii la porta e mi accorsi che il tempo era scivolato via veloce-mente…era mezzogiorno!
Dovevo andare al muretto da Adele e poi correre alla fermata della corriera, da tutt’altra parte del paese.
Guardai mia madre appoggiata all’imbotte della porta, con le mani nelle tasche del grembiule…
Non si faceva avanti per baciarmi…era ancora concentrata nella parte della sostenuta.
Mi slanciai io e la baciai sulla guancia, in modo freddo e sbrigati-vo…
Poi mi allontanai…e immaginai cosa stessero vedendo i suoi oc-chi…
Mio padre che se ne andava con la valigia di cartone e l’abito mar-rone…camminava nel sole…tra la polvere bianca…per la seconda volta…verso la città…
Allora fu perché doveva ricoverarsi in una clinica dove avrebbero fatto accertamenti sul suo diabete.
I continui infusi di foglie d’ulivo non servivano a molto…aveva già avuto due infarti e l’ultimo era stato grave.
Mia madre non poteva lasciarmi per accompagnarlo, ero piccolo e così decisero che saremmo dovuti restare a casa ad aspettarlo.
Ma lui non tornò…
Lui non tornò più.
Non importa se le lacrime non vengono versate…se gli occhi non diventano lucidi e la voce non si spezza…la sofferenza non è quella che si vede…non è una dimostrazione…il dolore profondo si av-verte nell’anima e congela il cuore…
Accelerai il passo e arrivai al muretto, dieci minuti dopo mezzo-giorno ma Adele non c’era…Caspita, ma che fine aveva fatto? Ma-gari non si era ricordata dell’appuntamento…io non potevo aspetta-re oltre…dovevo subito correre alla fermata della corriera, altri-menti…basta pensare…basta sperare…dovevo muovermi…la spe-ranza era morta!
Non potevo permettermi di perdere la corriera e deludere mia ma-dre…quell’addio era stato abbastanza tragico da doverlo ripetere…
Diedi l’ultimo sguardo alla collina, alla casa che non si vede e corsi dall’altra parte del paese, alla fermata della corriera.
Arrivai col fiatone alla fermata…un attimo dopo arrivò la corriera, alzando un polverone nebbioso nella strada bianca e rovente…
Per qualche istante credei di essere in un luogo mistico, per tanta luce e sfocatura…il bianco sembrava aver dissolto le forme e i co-lori…è in quel bagliore che emerse…la faccia…la faccia di Adele.
Era visibilmente affaticata, esausta direi…
“Ti ho cercato dappertutto!” disse col poco fiato che le era rima-sto…
Io guardai la corriera ferma, che mi aspettava al lato della strada.
“Adele, mi dispiace ma devo andare!” le dissi senza togliere lo sguardo dalla corriera e andandole in contro.
Mi sentii afferrare il braccio. Mi voltai verso Adele.
L’autista della corriera si affacciò al finestrino e gridò guardando-mi:
“Allora? Ti vuoi muovere?”
“Se ne può andare!” rispose Adele gridando…prima ancora che po-tessi capire…
L’autista diede gas e ci lasciò nella polvere bianca…
Attonito, aspettai che svanisse quell’alone d’incanto.
Adele mi sorrideva…
“Ti ho aspettato al muretto, ma quando ho visto che tardavi, non ho potuto desistere dal cercarti a casa, dove tua madre mi ha detto che avresti preso la corriera per la città, così ti ho raggiunto qui!” spie-gò.
“Adele! Forse non capisci? Mi hai fatto perdere la corriera…solo perché volevi salutarmi!” le gridai su tutte le furie…
“Non perché volevo salutarti, ma perché volevo parlarti!” si spiegò.
“È lo stesso, non mi sembra un motivo valido…potevi scriver-mi…o comunicare attraverso mia madre!” continuai io alterato e gettando la valigia a terra per sedervi sopra.
“Non ha importanza, ciò che conta è che ho fatto in tempo.” Cercò di tranquillizzarmi.
“Io no però…e per colpa tua!” le dissi imbronciato con le braccia incrociate.
Lei si inginocchiò per guardarmi negli occhi.
“Parla, su! Sono curioso di sapere cosa dovevi dirmi di così impor-tante!” la esortai.
Dopo un profondo respiro iniziò:
“ Il signore è stato di malumore tutto il tempo…e non mi ha quasi mai rivolto la parola…non aveva neppure aperto il pacchetto col portafoto aggiustato, fino a stamani.”
“Comportamento imprevedibile…Adele! Cosa c’è di interessante in quello che mi stai dicendo?” le chiesi incredulo.
“Ma stamani…mi ha chiamata…io l’ho raggiunto, per la prima vol-ta nella sua camera…era seduto sul letto, con la cornice davanti a sé e la carta della confezione spalancata sulla coperta. Non s’è nep-pure voltato, quando mi ha sentita entrare…mi ha semplicemente chiesto se c’era qualcuno, con me, dal vetraio…io non sapevo cosa rispondergli e gli ho detto che ero da sola, allora mi ha ripetuto la domanda, come se si fosse accorto che stavo mentendo…così gli ho detto che c’eri anche tu…”.
“Adele!” la fermai, “sinceramente non ha nessuna importanza…!”
“Invece ne ha…poiché appena gli ho detto la verità mi ha chiesto di chiamarti…!” mi disse entusiasta.
“Per che cosa…? Forse pensa che abbia ripagato io il vetro della cornice e mi vuole ringraziare?…ma si sbaglia…e poi adesso non conta più…”.
Adele mi afferrò per le spalle azzittendomi e mi disse:
“Forse non hai capito! Sei assunto!” mi gridò in faccia esplodendo di contentezza.
Io la guardai incredulo, senza realizzare…i miei abiti erano com-pletamente matidi di sudore e mi sembrava di respirare ancora la polvere alzata dalla corriera. La sentivo nelle narici e in bocca.
Avvertivo il tessuto bagnato della camicia, attaccato alla pelle e i riccioli alla fronte…mi scoppiava la testa dentro al cappello…lo tolsi con un gesto di ribellione e mi allentai la cravatta sbottonando il colletto.
Ero assunto.
Ero assunto!
Scoppiai a ridere di fronte alla faccia esitante di Adele…poi anche lei mi seguì e le nostre risate e grida ingoiarono qualsiasi altro ru-more, rimbombando come in una stanza vuota…Ero assunto!
Balzai in piedi e l’abbracciai e le risate si trasformarono in sin-ghiozzi, in un fragoroso pianto di gioia…lei mi teneva stretto e i sudori si confusero…i respiri e le lacrime…e i capelli e le nostre anime…
Eravamo felici…all’unisono…
Non c’è niente di più bello della felicità condivisa…perché in realtà non è una felicità a metà, ma una felicità doppia…doppiamente po-tente e vibrante…doppiamente reale.
Appena ci fummo staccati, ci guardammo per dirci in silenzio, con lo sguardo, tutto ciò che era superfluo da dire, ma essenziale da comunicare…Lei capì che le ero grato ed io, che lei era felice, non solo per il fatto che avessi trovato lavoro e non fossi più costretto ad andare in città, ma perché avrei condiviso con lei quella sua missione e vocazione…e non sarebbe più stata da sola a combattere e forse perché la speranza che le cose all’interno della casa potesse-ro cambiare era sempre meno una chimera e si stava trasformando in un progetto concreto.
Lei, con la mia valigia ed io, con la giacca e il cappello da un lato e la mano nella sua dall’altro, ci avviammo verso la casa che non si vede. Incontrammo la gente del paese e le facce di sempre e gli an-goli che conoscevamo come le nostre tasche…tutto era estrema-mente unico. Era un mondo che ci osservava…che si accorgeva della nostra felicità e la rispecchiava…
Poi arrivammo al muretto e quel posto ci fece sorridere…era il po-sto dell’attesa…per entrambi…il confine tra il paese e quella casa che ci avrebbe visti condividere il nostro tempo, da quell’istante in poi…avrebbe contenuto le nostre anime…
Ci lasciammo alle spalle quel bordo di pietre, salutandolo col pen-siero…e ci immergemmo nel mare d’erba alta, insieme…
Io con lei mi sentivo al sicuro…e la lasciai guidare quell’innovativa imbarcazione, tra le onde innocue e scintillanti…liquide chiome smeraldo…
Appena davanti alla casa…sulla ghiaia, cercai quel cerchio di gior-ni prima…era ancora lì, a formare una specie di punto interrogati-vo…entrammo dall’ingresso secondario, come si addice al persona-le di servizio e piombammo nel buio e nel freddo.
Non li ricordavo così acuti e densi.
“Aspetta qui!” mi chiese lei.
Ero in cucina e cercai con la vista, ora adattata alla penombra, le cose che avevo già visto e quelle che non ero riuscito a scorgere la volta precedente…il tavolo col piano di marmo…il lavandino…
Mi sedei sulla sedia a dondolo e guardai la valigia per terra…le mie scarpe bianche di polvere…veloce, ci passai sopra la mano e poi corsi al lavandino a sciacquarla…mi scarruffai i riccioli e mi sfilai la cravatta col nodo orrendo, mi arrotolai le maniche e rimborsai la camicia nei pantaloni…
“Amedeo…” era Adele appena entrata in cucina”…ti accompagno su dal signore!”
Io feci per prendere la valigia, come reazione istintiva…
“Credo che tu la possa lasciare qui!” disse sorridendo.
Ero impacciato ed emozionato…quell’uomo non era certo il tipo che mette a proprio agio le persone…l’ansia saliva insieme a me sulle scale di pietra…
Nel buio di un corridoio persi l’orientamento…ma seguii i passi di Adele... grazie ai suoi zoccoli rumorosi. Si fermò di fronte a quella che immaginai essere una porta, alla quale bussò…aperto un sottile spiraglio, mi sussurrò di entrare e se ne andò.
Io rimasi solo e non seppi cosa fare…Sì, lo so, dovevo entrare, ma non ero pronto, avevo paura…non riuscivo a…
“Avanti!” disse violenta quella voce spazientita.
Entrai, con lo stesso coraggio con cui un aspirante suicida preme il grilletto.
martedì 24 agosto 2010
sabato 21 agosto 2010
giovedì 19 agosto 2010
Frammento_1
Come posso scordare…tutte le parole…gli sguardi…noi…
Noi seduti, distesi, in piedi, accanto, l’uno di fronte a l’altro, vicini, lontani, l’uno sull’altro, noi…premuti…stretti, schiacciati, tenuti…sorretti?
Come posso scordare…ogni istante…l’amore che mi rapì…e non mi liberò…mi tenne legato stretto, bendato, col respiro trattenuto…e la paura di non sapere dove mi trovassi…?
Come posso scordare di aver vissuto…di aver bruciato, di essermi consumato per amore…come una candela…di aver sconfitto il buio…scaldato l’aria?
Noi seduti, distesi, in piedi, accanto, l’uno di fronte a l’altro, vicini, lontani, l’uno sull’altro, noi…premuti…stretti, schiacciati, tenuti…sorretti?
Come posso scordare…ogni istante…l’amore che mi rapì…e non mi liberò…mi tenne legato stretto, bendato, col respiro trattenuto…e la paura di non sapere dove mi trovassi…?
Come posso scordare di aver vissuto…di aver bruciato, di essermi consumato per amore…come una candela…di aver sconfitto il buio…scaldato l’aria?
venerdì 25 giugno 2010
Buio e luce
Mi sentivo solo…Solo.
Solo nella casa del buio.
Solo come nessuno.
Avevo vissuto fino allora? Quella che vedevo voltandomi indietro era vita? Non avevo amato.
Non avevo mai …amato.
Piansi incapace di fare altro. Vigliacco. Avevo visto l’amore…nei suoi occhi…quella luce più forte di ogni altra…di qualsiasi luce elettrica…di qualunque sole. Quello era dunque l’amore? Bruciare in quella luce. Ora capivo perché il buio regnava…in quelle stanze. Per alleviare il dolore…per dare pace. Lui si era rifugiato nel buio…perché orami aveva perso la sua luce e qualsiasi termine di paragone lo avrebbe fatto soffrire...
Solo nella casa del buio.
Solo come nessuno.
Avevo vissuto fino allora? Quella che vedevo voltandomi indietro era vita? Non avevo amato.
Non avevo mai …amato.
Piansi incapace di fare altro. Vigliacco. Avevo visto l’amore…nei suoi occhi…quella luce più forte di ogni altra…di qualsiasi luce elettrica…di qualunque sole. Quello era dunque l’amore? Bruciare in quella luce. Ora capivo perché il buio regnava…in quelle stanze. Per alleviare il dolore…per dare pace. Lui si era rifugiato nel buio…perché orami aveva perso la sua luce e qualsiasi termine di paragone lo avrebbe fatto soffrire...
giovedì 24 giugno 2010
Orfeo e Calais (Fanocle)
Fanocle fa parte del gruppo di poeti ellenistici di ambiente alessandrino dediti al genere elegiaco.
Della sua opera ci restano solo frammenti, che ci permettono comunque di conoscere l'argomento almeno di alcune elegie: il frammento 1 Powell, il più lungo (28 versi), faceva parte di un componimento sull'amore tra Orfeo e Calais.
È incentrato su un doppio àition: infatti a quello principale, che vuole spiegare l'usanza dei Traci di marchiare le loro donne, se ne collega un altro, che intende spiegare il motivo della così particolare predilezione dell'isola di Lesbo per la musica.
L'elegia si apre con Orfeo che si strugge per Calais figlio di Borea, sedendo nei boschi della Tracia e cantando il suo amore; le donne tracie però a un tratto lo circondano e lo aggrediscono per ucciderlo; non possono sopportare che lui disdegni così le donne e lo accusano di aver introdotto tra i Traci gli amori maschili. Ne fanno a pezzi il corpo e tagliatagli la testa la fissano con un chiodo alla sua lira e la gettano in mare. Così le correnti portano la testa di Orfeo a Lesbo, e i Lesbi la seppelliscono ponendo la lira sopra al tumulo; in questo modo la musica soave di Orfeo permea per sempre l'isola, da allora vocata alle arti del canto e della lira. I Traci, conosciuto il terribile delitto delle loro donne, le marchiano, perché portino per sempre il ricordo di quella colpa.
Il componimento è permeato da una diffusa atmosfera di pathos, di compassione per l'infelicità dell'amore di Orfeo, e per l'assoluta ingiustizia della sua orribile fine. Appare chiaramente confutabile, almeno in questa elegia, l'interpretazione critica che vedeva in Fanocle una condanna dell'omosessualità.
Testo dell'elegia 1
"O come il figlio di Oiagro, il tracio Orfeo
amava di cuore Calais figlio di Borea,
e spesso nei boschi ombrosi sedeva cantando
il suo amore, e il cuore non aveva pace,
ma sempre insonni pene nell'animo
lo tormentavano guardando il fiorente Calais.
ma lui le Bistonidi malvagie circondarono e
uccisero avendo aguzzato le taglienti spade,
poiché primo aveva mostrato fra i Traci gli amori
maschili e non apprezzava gli amori delle donne.
e col bronzo gli staccarono il capo, e poi
nel mare tracio lo gettarono con la lira
fissata con un chiodo, affinché fossero trascinati dal mare
entrambi insieme, bagnati dai lucenti flutti.
e il canuto mare li spinse alla sacra Lesbo:
e un suono come di armoniosa lira tenne il mare
e le isole e i lidi marini, dove la melodiosa
testa di Orfeo gli uomini seppellirono,
e sul tumulo l'arguta cetra posero, che anche i muti
sassi persuadeva e l'odiosa acqua di Forco.
da allora i canti e l'amabile arte della cetra
tengono l'isola, e di tutte è la più canora.
e come i bellicosi Traci appresero il crudele atto
delle donne e a tutti venne grande dolore,
le mogli marchiarono, perché sul corpo portando il segno
livido non dimenticassero l'odioso delitto.
e la pena per Orfeo ucciso pagano le donne
ancora adesso a causa di quella colpa."
(Fanocle, fr. 1 Powell)
Della sua opera ci restano solo frammenti, che ci permettono comunque di conoscere l'argomento almeno di alcune elegie: il frammento 1 Powell, il più lungo (28 versi), faceva parte di un componimento sull'amore tra Orfeo e Calais.
È incentrato su un doppio àition: infatti a quello principale, che vuole spiegare l'usanza dei Traci di marchiare le loro donne, se ne collega un altro, che intende spiegare il motivo della così particolare predilezione dell'isola di Lesbo per la musica.
L'elegia si apre con Orfeo che si strugge per Calais figlio di Borea, sedendo nei boschi della Tracia e cantando il suo amore; le donne tracie però a un tratto lo circondano e lo aggrediscono per ucciderlo; non possono sopportare che lui disdegni così le donne e lo accusano di aver introdotto tra i Traci gli amori maschili. Ne fanno a pezzi il corpo e tagliatagli la testa la fissano con un chiodo alla sua lira e la gettano in mare. Così le correnti portano la testa di Orfeo a Lesbo, e i Lesbi la seppelliscono ponendo la lira sopra al tumulo; in questo modo la musica soave di Orfeo permea per sempre l'isola, da allora vocata alle arti del canto e della lira. I Traci, conosciuto il terribile delitto delle loro donne, le marchiano, perché portino per sempre il ricordo di quella colpa.
Il componimento è permeato da una diffusa atmosfera di pathos, di compassione per l'infelicità dell'amore di Orfeo, e per l'assoluta ingiustizia della sua orribile fine. Appare chiaramente confutabile, almeno in questa elegia, l'interpretazione critica che vedeva in Fanocle una condanna dell'omosessualità.
Testo dell'elegia 1
"O come il figlio di Oiagro, il tracio Orfeo
amava di cuore Calais figlio di Borea,
e spesso nei boschi ombrosi sedeva cantando
il suo amore, e il cuore non aveva pace,
ma sempre insonni pene nell'animo
lo tormentavano guardando il fiorente Calais.
ma lui le Bistonidi malvagie circondarono e
uccisero avendo aguzzato le taglienti spade,
poiché primo aveva mostrato fra i Traci gli amori
maschili e non apprezzava gli amori delle donne.
e col bronzo gli staccarono il capo, e poi
nel mare tracio lo gettarono con la lira
fissata con un chiodo, affinché fossero trascinati dal mare
entrambi insieme, bagnati dai lucenti flutti.
e il canuto mare li spinse alla sacra Lesbo:
e un suono come di armoniosa lira tenne il mare
e le isole e i lidi marini, dove la melodiosa
testa di Orfeo gli uomini seppellirono,
e sul tumulo l'arguta cetra posero, che anche i muti
sassi persuadeva e l'odiosa acqua di Forco.
da allora i canti e l'amabile arte della cetra
tengono l'isola, e di tutte è la più canora.
e come i bellicosi Traci appresero il crudele atto
delle donne e a tutti venne grande dolore,
le mogli marchiarono, perché sul corpo portando il segno
livido non dimenticassero l'odioso delitto.
e la pena per Orfeo ucciso pagano le donne
ancora adesso a causa di quella colpa."
(Fanocle, fr. 1 Powell)
Orfeo ed Euridice (Ovidio, Metamorfosi, X, 1-77)
Di lì, avvolto nel suo mantello dorato, se ne andò Imeneo
per l’etere infinito, dirigendosi verso la terra
dei Cìconi, dove la voce di Orfeo lo invocava invano.
Invano, sì, perché il dio venne, ma senza le parole di rito,
senza letizia in volto, senza presagi propizi.
Persino la fiaccola che impugnava sprigionò soltanto fumo,
provocando lacrime, e, per quanto agitata, non levò mai fiamme.
Presagio infausto di peggiore evento: la giovane sposa,
mentre tra i prati vagava in compagnia d’uno stuolo
di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente.
A lungo sotto la volta del cielo la pianse il poeta
del Ròdope, ma per saggiare anche il mondo dei morti,
non esitò a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro:
tra folle irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse
alla presenza di Persefone e del signore che regge
lo squallido regno dei morti. Intonando al canto le corde
della lira, così disse: «O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi,
dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire,
se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi
di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare
le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,
irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa.
Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,
in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.
Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:
ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;
se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:
se non è inventata la novella di quell’antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi,
per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno,
vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!
Tutto vi dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra,
presto o tardi tutti precipitiamo in quest’unico luogo.
Qui tutti noi siamo diretti; questa è l’ultima dimora, e qui
sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.
Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto
il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.
Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo:
io non me ne andrò: della morte d’entrambi godrete!».
Mentre così si esprimeva, accompagnato dal suono della lira,
le anime esangui piangevano; Tantalo tralasciò d’afferrare
l’acqua che gli sfuggiva, la ruota d’Issìone s’arrestò stupita,
gli avvoltoi più non rosero il fegato a Tizio, deposero l’urna
le nipoti di Belo e tu, Sisifo, sedesti sul tuo macigno.
Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta
si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore,
regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera,
e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava,
e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.
Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine
di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.
In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.
E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell’Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata,
ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.
Rimase impietrito Orfeo per la doppia morte della moglie,
così come colui che fu terrorizzato nel vedere Cerbero
con la testa di mezzo incatenata, e il cui terrore non cessò
finché dall’avita natura il suo corpo non fu mutato in pietra;
o come Oleno che si addossò la colpa e volle
passare per reo; o te, sventurata Letea, troppo innamorata
della tua bellezza: cuori indivisi un tempo nell’amore,
ora soltanto rocce che si ergono tra i ruscelli dell’Ida.
Invano Orfeo scongiurò Caronte di traghettarlo un’altra volta:
il nocchiero lo scacciò. Per sette giorni rimase lì
accasciato sulla riva, senza toccare alcun dono di Cerere:
dolore, angoscia e lacrime furono il suo unico cibo.
Poi, dopo aver maledetto la crudeltà dei numi dell’Averno,
si ritirò sull’alto Ròdope e sull’Emo battuto dai venti.
per l’etere infinito, dirigendosi verso la terra
dei Cìconi, dove la voce di Orfeo lo invocava invano.
Invano, sì, perché il dio venne, ma senza le parole di rito,
senza letizia in volto, senza presagi propizi.
Persino la fiaccola che impugnava sprigionò soltanto fumo,
provocando lacrime, e, per quanto agitata, non levò mai fiamme.
Presagio infausto di peggiore evento: la giovane sposa,
mentre tra i prati vagava in compagnia d’uno stuolo
di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente.
A lungo sotto la volta del cielo la pianse il poeta
del Ròdope, ma per saggiare anche il mondo dei morti,
non esitò a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro:
tra folle irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse
alla presenza di Persefone e del signore che regge
lo squallido regno dei morti. Intonando al canto le corde
della lira, così disse: «O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi,
dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire,
se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi
di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare
le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,
irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa.
Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,
in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.
Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:
ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;
se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:
se non è inventata la novella di quell’antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi,
per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno,
vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!
Tutto vi dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra,
presto o tardi tutti precipitiamo in quest’unico luogo.
Qui tutti noi siamo diretti; questa è l’ultima dimora, e qui
sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.
Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto
il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.
Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo:
io non me ne andrò: della morte d’entrambi godrete!».
Mentre così si esprimeva, accompagnato dal suono della lira,
le anime esangui piangevano; Tantalo tralasciò d’afferrare
l’acqua che gli sfuggiva, la ruota d’Issìone s’arrestò stupita,
gli avvoltoi più non rosero il fegato a Tizio, deposero l’urna
le nipoti di Belo e tu, Sisifo, sedesti sul tuo macigno.
Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta
si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore,
regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera,
e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava,
e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.
Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine
di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.
In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.
E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell’Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata,
ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.
Rimase impietrito Orfeo per la doppia morte della moglie,
così come colui che fu terrorizzato nel vedere Cerbero
con la testa di mezzo incatenata, e il cui terrore non cessò
finché dall’avita natura il suo corpo non fu mutato in pietra;
o come Oleno che si addossò la colpa e volle
passare per reo; o te, sventurata Letea, troppo innamorata
della tua bellezza: cuori indivisi un tempo nell’amore,
ora soltanto rocce che si ergono tra i ruscelli dell’Ida.
Invano Orfeo scongiurò Caronte di traghettarlo un’altra volta:
il nocchiero lo scacciò. Per sette giorni rimase lì
accasciato sulla riva, senza toccare alcun dono di Cerere:
dolore, angoscia e lacrime furono il suo unico cibo.
Poi, dopo aver maledetto la crudeltà dei numi dell’Averno,
si ritirò sull’alto Ròdope e sull’Emo battuto dai venti.
Virgilio, Orfeo ed Euridice (Georgiche, dal libro IV)
'nam quis te, iuuenum confidentissime, nostras 445
iussit adire domos? quidue hinc petis?' inquit. at ille:
'scis, Proteu, scis ipse, neque est te fallere quicquam:
sed tu desine uelle. deum praecepta secuti
uenimus hinc lassis quaesitum oracula rebus.'
tantum effatus. ad haec uates ui denique multa 450
ardentis oculos intorsit lumine glauco,
et grauiter frendens sic fatis ora resoluit:
'Non te nullius exercent numinis irae;
magna luis commissa: tibi has miserabilis Orpheus
haudquaquam ob meritum poenas, ni fata resistant, 455
suscitat, et rapta grauiter pro coniuge saeuit.
illa quidem, dum te fugeret per flumina praeceps,
immanem ante pedes hydrum moritura puella
seruantem ripas alta non uidit in herba.
at chorus aequalis Dryadum clamore supremos 460
impleuit montis; flerunt Rhodopeiae arces
altaque Pangaea et Rhesi Mauortia tellus
atque Getae atque Hebrus et Actias Orithyia.
ipse caua solans aegrum testudine amorem
te, dulcis coniunx, te solo in litore secum, 465
te ueniente die, te decedente canebat.
Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
et caligantem nigra formidine lucum
ingressus, Manisque adiit regemque tremendum
nesciaque humanis precibus mansuescere corda. 470
at cantu commotae Erebi de sedibus imis
umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
quam multa in foliis auium se milia condunt,
Vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
matres atque uiri defunctaque corpora uita 475
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuuenes ante ora parentum,
quos circum limus niger et deformis harundo
Cocyti tardaque palus inamabilis unda
alligat et nouies Styx interfusa coercet. 480
quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
Tartara caeruleosque implexae crinibus anguis
Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora,
atque Ixionii uento rota constitit orbis.
iamque pedem referens casus euaserat omnis, 485
redditaque Eurydice superas ueniebat ad auras
pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem),
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes:
restitit, Eurydicenque suam iam luce sub ipsa 490
immemor heu! uictusque animi respexit. ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera, terque fragor stagnis auditus Auernis.
illa “quis et me” inquit “miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? en iterum crudelia retro 495
fata uocant, conditque natantia lumina somnus.
iamque uale: feror ingenti circumdata nocte
inualidasque tibi tendens, heu non tua, palmas.”
dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenuis, fugit diuersa, neque illum 500
prensantem nequiquam umbras et multa uolentem
dicere praeterea uidit; nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.
quid faceret? quo se rapta bis coniuge ferret?
quo fletu Manis, quae numina uoce moueret? 505
illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.
septem illum totos perhibent ex ordine mensis
rupe sub aëria deserti ad Strymonis undam
flesse sibi, et gelidis haec euoluisse sub antris
mulcentem tigris et agentem carmine quercus: 510
qualis populea maerens philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
obseruans nido implumis detraxit; at illa
flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
integrat, et maestis late loca questibus implet. 515
nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei:
solus Hyperboreas glacies Tanaimque niualem
aruaque Riphaeis numquam uiduata pruinis
lustrabat, raptam Eurydicen atque inrita Ditis
dona querens. spretae Ciconum quo munere matres 520
inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi
discerptum latos iuuenem sparsere per agros.
tum quoque marmorea caput a ceruice reuulsum
gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
uolueret, Eurydicen uox ipsa et frigida lingua, 525
a miseram Eurydicen! anima fugiente uocabat:
Eurydicen toto referebant flumine ripae.'
Haec Proteus, et se iactu dedit aequor in altum,
quaque dedit, spumantem undam sub uertice torsit.
at non Cyrene, namque ultro adfata timentem: 530
'nate, licet tristis animo deponere curas.
haec omnis morbi causa, hinc miserabile Nymphae,
cum quibus illa choros lucis agitabat in altis,
exitium misere apibus. tu munera supplex
tende petens pacem, et facilis uenerare Napaeas; 535
namque dabunt ueniam uotis, irasque remittent.
sed modus orandi qui sit prius ordine dicam:
quattuor eximios praestanti corpore tauros,
qui tibi nunc uiridis depascunt summa Lycaei,
delige, et intacta totidem ceruice iuuencas. 540
quattuor his aras alta ad delubra dearum
constitue, et sacrum iugulis demitte cruorem,
corporaque ipsa boum frondoso desere luco.
post, ubi nona suos Aurora ostenderit ortus,
inferias Orphei Lethaea papauera mittes 545
et nigram mactabis ouem, lucumque reuises;
placatam Eurydicen uitula uenerabere caesa.'
haud mora, continuo matris praecepta facessit:
ad delubra uenit, monstratas excitat aras,
quattuor eximios praestanti corpore tauros 550
ducit et intacta totidem ceruice iuuencas.
post, ubi nona suos Aurora induxerat ortus,
inferias Orphei mittit, lucumque reuisit.
hic uero subitum ac dictu mirabile monstrum
aspiciunt, liquefacta boum per uiscera toto 555
stridere apes utero et ruptis efferuere costis,
immensasque trahi nubes, iamque arbore summa
confluere et lentis uuam demittere ramis.
Haec super aruorum cultu pecorumque canebam
et super arboribus, Caesar dum magnus ad altum 560
fulminat Euphraten bello uictorque uolentis
per populos dat iura uiamque adfectat Olympo.
illo Vergilium me tempore dulcis alebat
Parthenope studiis florentem ignobilis oti,
carmina qui lusi pastorum audaxque iuuenta, 565
Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi.
'Chi, chi mai ti spinse, giovane audace, / a venire da me? e qui cosa cerchi?'
'Ma tu lo sai, Pròteo, lo sai', rispose, / non è possibile ingannarti;
cessa tu di volerlo fare. / Seguendo ordini divini, / qui vengo a chiedere presagi per la mia sventura'. / Questo disse, e a queste parole, esasperato, / l'indovino torse gli occhi in un balenio di verde / e digrignando a forza i denti, / schiuse le labbra al futuro:
'Certo, l'ira di un nume ti perseguita; / colpe gravi tu sconti.
Contro di te, se il fato non si oppone, / Orfeo, senza volerlo infelice, / provoca il tuo castigo
e si accanisce per la perdita della sua sposa.
Correndo a perdifiato lungo un fiume, / Euridice, ormai segnata dalla morte, / per sfuggirti, non vide il serpente mostruoso
appostato tra l'erba folta sulla riva.
E il coro delle ninfe sue compagne / riempì di lamenti i monti più alti; / piansero le cime del Ròdope,
gli alti Pangei, / la terra guerriera di Reso,
piansero i Geti, l'Ebro, l'attica Oritía.
E Orfeo, cercando nella cetra conforto / all'amore perduto,
solo te, dolce sposa, solo te / sulla spiaggia deserta,
solo te cantava al nascere e al morire del giorno.
Poi, entrato nelle gole del Tènaro, / il varco profondo di Dite,
e nella selva dove fra le tenebre / si addensa la paura,
si avvicinò ai Mani e al loro re tremendo,
a chi non si addolcisce alle preghiere umane.
E dai luoghi più profondi dell'Èrebo, / commosse dal suo canto,
venivano leggere / le ombre, immagini opache dei morti:
a migliaia, / come si posano gli uccelli tra le foglie,
quando la sera o la pioggia d'inverno / dai monti li allontana;
donne, uomini, e ormai privi di vita, / corpi di eroi generosi, / e bambini, fanciulle senza amore / e giovani arsi sul rogo
davanti ai genitori:
ora il fango nero, il canneto orrendo del Cocito / e una palude ripugnante / con le sue acque pigre li circonda
e con nove giri lo Stige li rinserra. / Sino al cuore del Tartaro,
alle dimore della morte,
sino alle Eumenidi / dai capelli intrecciati con livide serpi
dilagò lo stupore; / muto con le tre bocche spalancate
rimase Cerbero / e insieme al vento
si arrestò la ruota di Issione. / Ma già Orfeo, eluso ogni pericolo,
tornava sui suoi passi / e libera Euridice
saliva a rivedere il cielo, / seguendolo alle spalle, / come Proserpina ordinava, / quando senza rimedio / una follia improvvisa lo travolse, / perdonabile, certo, / se sapessero i Mani perdonare: / fermo, ormai vicino alla luce, / vinto da amore, / la sua Euridice si voltò incantato a guardare. / Così gettata al vento la fatica, / infranta la legge del tiranno spietato, / tre volte si udì un fragore / nelle paludi dell'Averno.
E lei: 'Ahimè, Orfeo, / chi ci ha perduti, / quale follia?
Senza pietà il destino indietro mi richiama
e un sonno vela di morte i miei occhi smarriti.
E ora addio: intorno una notte fonda mi assorbe
e a te, non più tua, inerti tendo le mani'.
Disse e d'improvviso svanì nel nulla, / come fumo che si dissolve alla brezza dell'aria, / e non poté vederlo
mentre con la voglia inesausta di parlarle
abbracciava invano le ombre; / ma il nocchiero dell'Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude.
Che fare? Dove andarsene, perduta ormai, / perduta la sua sposa?
Con che pianto commuovere le ombre, / con che voce gli dei?
Certo, ormai fredda / lei navigava sulla barca dello Stige.
Dicono che per sette mesi / Orfeo piangesse senza requie
sotto una rupe a picco / sulla riva deserta dello Strímone,
e che narrasse le sue pene / sotto il gelo delle stelle,
ammansendo le tigri / e trascinando col canto le querce.
Così afflitto l'usignolo / lamenta nell'ombra di un pioppo la perdita dei figli, / che un bifolco crudele
con l'insidia ha tolto implumi dal nido; / piangendo nella notte,
ripete da un ramo il suo canto desolato / e riempie ogni luogo intorno / con la malinconia del suo lamento.
Nessun amore, / nessuna lusinga di nozze / gli piegarono il cuore.
Solo se ne andò tra i ghiacci del nord / e le nevi del Tànai,
sui monti di Tracia oppressi dal gelo eterno,
lamentando la morte di Euridice, / il dono inutile di Dite.
E le donne dei Cíconi offese da quel rimpianto,
durante le orge notturne dei riti di Bacco,
dispersero nei campi le sue membra dilaniate.
Ma anche allora, quando in mezzo ai gorghi
l'Ebro trascinava sull'onda / il capo spiccato dal suo collo d'avorio, / la voce ormai rappresa nella gola
'Euridice' chiamava, mentre l'anima fuggiva, / 'o misera Euridice'. E lungo tutto il fiume / le rive ripetevano 'Euridice'.
Questo disse Pròteo, e con un balzo / s'inabissò nel mare,
e là dove s'immerse / l'acqua girò in vortici di spuma.
Immobile al suo fianco, / Cirene si rivolse al figlio sbigottito:
'Figlio mio, sgombra la mente dai tristi pensieri.
Qui sta la causa d'ogni male, / per ciò le ninfe (e con loro Euridice / intrecciava danze nel segreto dei boschi)
mandarono alle api quello scempio. / Con umiltà, chiedendo pace, / offrigli doni e prega le Napee pietose:
ai voti concederanno il perdono / e deporranno l'ira.
Ma prima ti rivelerò il modo di pregarle.
Scegli fra tutti i tuoi, / che pascolano sulla cima verde del Liceo,
quattro tori dal corpo vigoroso, / i migliori, e altrettante giovenche / ancora non domate.
Alza per loro quattro are / vicino ai santuari delle dee
e dalle gole fa sgorgare il sangue sacro,
abbandonando i loro corpi nel folto del bosco.
Poi, al sorgere della nona aurora, / offri ad Orfeo, come dono funebre, / papaveri del Lete
e sacrifica una pecora nera; / torna quindi nel bosco,
e ad Euridice ormai placata / renderai onore immolando una giovenca'. Senza indugio Aristeo / segue i consigli della madre:
va al santuario, alza le are prescritte, / vi conduce quattro tori dal corpo vigoroso, / i migliori, e altrettante giovenche
ancora non domate;
poi al sorgere della nona aurora, / offre il dono funebre ad Orfeo e torna nel bosco.
E qui d'improvviso un prodigio incredibile appare: / fra le viscere disfatte degli animali / per tutto il ventre ronzano le api,
brulicando dai fianchi aperti, / in nugoli immensi ne escono
e, raccogliendosi sulla cima di un albero,
pendono a grappoli dalla curva dei rami.
Questo cantavo sulla pratica dei campi, / degli animali e intorno agli alberi, / mentre lontano sulle rive dell'Eufrate, / il grande Cesare folgora in guerra / e vincitore detta leggi ai popoli in attesa, / aprendosi la strada dell'Olimpo. / Vivevo allora nell'incanto di Partenope, / coltivando il piacere
di starmene in disparte, / io, Virgilio, io, che sul ritmo dei pastori
ho improvvisato, / cantando, con l'ardire della giovinezza,
Títiro all'ombra accogliente di un faggio.
iussit adire domos? quidue hinc petis?' inquit. at ille:
'scis, Proteu, scis ipse, neque est te fallere quicquam:
sed tu desine uelle. deum praecepta secuti
uenimus hinc lassis quaesitum oracula rebus.'
tantum effatus. ad haec uates ui denique multa 450
ardentis oculos intorsit lumine glauco,
et grauiter frendens sic fatis ora resoluit:
'Non te nullius exercent numinis irae;
magna luis commissa: tibi has miserabilis Orpheus
haudquaquam ob meritum poenas, ni fata resistant, 455
suscitat, et rapta grauiter pro coniuge saeuit.
illa quidem, dum te fugeret per flumina praeceps,
immanem ante pedes hydrum moritura puella
seruantem ripas alta non uidit in herba.
at chorus aequalis Dryadum clamore supremos 460
impleuit montis; flerunt Rhodopeiae arces
altaque Pangaea et Rhesi Mauortia tellus
atque Getae atque Hebrus et Actias Orithyia.
ipse caua solans aegrum testudine amorem
te, dulcis coniunx, te solo in litore secum, 465
te ueniente die, te decedente canebat.
Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
et caligantem nigra formidine lucum
ingressus, Manisque adiit regemque tremendum
nesciaque humanis precibus mansuescere corda. 470
at cantu commotae Erebi de sedibus imis
umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
quam multa in foliis auium se milia condunt,
Vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
matres atque uiri defunctaque corpora uita 475
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuuenes ante ora parentum,
quos circum limus niger et deformis harundo
Cocyti tardaque palus inamabilis unda
alligat et nouies Styx interfusa coercet. 480
quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
Tartara caeruleosque implexae crinibus anguis
Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora,
atque Ixionii uento rota constitit orbis.
iamque pedem referens casus euaserat omnis, 485
redditaque Eurydice superas ueniebat ad auras
pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem),
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes:
restitit, Eurydicenque suam iam luce sub ipsa 490
immemor heu! uictusque animi respexit. ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera, terque fragor stagnis auditus Auernis.
illa “quis et me” inquit “miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? en iterum crudelia retro 495
fata uocant, conditque natantia lumina somnus.
iamque uale: feror ingenti circumdata nocte
inualidasque tibi tendens, heu non tua, palmas.”
dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenuis, fugit diuersa, neque illum 500
prensantem nequiquam umbras et multa uolentem
dicere praeterea uidit; nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.
quid faceret? quo se rapta bis coniuge ferret?
quo fletu Manis, quae numina uoce moueret? 505
illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.
septem illum totos perhibent ex ordine mensis
rupe sub aëria deserti ad Strymonis undam
flesse sibi, et gelidis haec euoluisse sub antris
mulcentem tigris et agentem carmine quercus: 510
qualis populea maerens philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
obseruans nido implumis detraxit; at illa
flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
integrat, et maestis late loca questibus implet. 515
nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei:
solus Hyperboreas glacies Tanaimque niualem
aruaque Riphaeis numquam uiduata pruinis
lustrabat, raptam Eurydicen atque inrita Ditis
dona querens. spretae Ciconum quo munere matres 520
inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi
discerptum latos iuuenem sparsere per agros.
tum quoque marmorea caput a ceruice reuulsum
gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
uolueret, Eurydicen uox ipsa et frigida lingua, 525
a miseram Eurydicen! anima fugiente uocabat:
Eurydicen toto referebant flumine ripae.'
Haec Proteus, et se iactu dedit aequor in altum,
quaque dedit, spumantem undam sub uertice torsit.
at non Cyrene, namque ultro adfata timentem: 530
'nate, licet tristis animo deponere curas.
haec omnis morbi causa, hinc miserabile Nymphae,
cum quibus illa choros lucis agitabat in altis,
exitium misere apibus. tu munera supplex
tende petens pacem, et facilis uenerare Napaeas; 535
namque dabunt ueniam uotis, irasque remittent.
sed modus orandi qui sit prius ordine dicam:
quattuor eximios praestanti corpore tauros,
qui tibi nunc uiridis depascunt summa Lycaei,
delige, et intacta totidem ceruice iuuencas. 540
quattuor his aras alta ad delubra dearum
constitue, et sacrum iugulis demitte cruorem,
corporaque ipsa boum frondoso desere luco.
post, ubi nona suos Aurora ostenderit ortus,
inferias Orphei Lethaea papauera mittes 545
et nigram mactabis ouem, lucumque reuises;
placatam Eurydicen uitula uenerabere caesa.'
haud mora, continuo matris praecepta facessit:
ad delubra uenit, monstratas excitat aras,
quattuor eximios praestanti corpore tauros 550
ducit et intacta totidem ceruice iuuencas.
post, ubi nona suos Aurora induxerat ortus,
inferias Orphei mittit, lucumque reuisit.
hic uero subitum ac dictu mirabile monstrum
aspiciunt, liquefacta boum per uiscera toto 555
stridere apes utero et ruptis efferuere costis,
immensasque trahi nubes, iamque arbore summa
confluere et lentis uuam demittere ramis.
Haec super aruorum cultu pecorumque canebam
et super arboribus, Caesar dum magnus ad altum 560
fulminat Euphraten bello uictorque uolentis
per populos dat iura uiamque adfectat Olympo.
illo Vergilium me tempore dulcis alebat
Parthenope studiis florentem ignobilis oti,
carmina qui lusi pastorum audaxque iuuenta, 565
Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi.
'Chi, chi mai ti spinse, giovane audace, / a venire da me? e qui cosa cerchi?'
'Ma tu lo sai, Pròteo, lo sai', rispose, / non è possibile ingannarti;
cessa tu di volerlo fare. / Seguendo ordini divini, / qui vengo a chiedere presagi per la mia sventura'. / Questo disse, e a queste parole, esasperato, / l'indovino torse gli occhi in un balenio di verde / e digrignando a forza i denti, / schiuse le labbra al futuro:
'Certo, l'ira di un nume ti perseguita; / colpe gravi tu sconti.
Contro di te, se il fato non si oppone, / Orfeo, senza volerlo infelice, / provoca il tuo castigo
e si accanisce per la perdita della sua sposa.
Correndo a perdifiato lungo un fiume, / Euridice, ormai segnata dalla morte, / per sfuggirti, non vide il serpente mostruoso
appostato tra l'erba folta sulla riva.
E il coro delle ninfe sue compagne / riempì di lamenti i monti più alti; / piansero le cime del Ròdope,
gli alti Pangei, / la terra guerriera di Reso,
piansero i Geti, l'Ebro, l'attica Oritía.
E Orfeo, cercando nella cetra conforto / all'amore perduto,
solo te, dolce sposa, solo te / sulla spiaggia deserta,
solo te cantava al nascere e al morire del giorno.
Poi, entrato nelle gole del Tènaro, / il varco profondo di Dite,
e nella selva dove fra le tenebre / si addensa la paura,
si avvicinò ai Mani e al loro re tremendo,
a chi non si addolcisce alle preghiere umane.
E dai luoghi più profondi dell'Èrebo, / commosse dal suo canto,
venivano leggere / le ombre, immagini opache dei morti:
a migliaia, / come si posano gli uccelli tra le foglie,
quando la sera o la pioggia d'inverno / dai monti li allontana;
donne, uomini, e ormai privi di vita, / corpi di eroi generosi, / e bambini, fanciulle senza amore / e giovani arsi sul rogo
davanti ai genitori:
ora il fango nero, il canneto orrendo del Cocito / e una palude ripugnante / con le sue acque pigre li circonda
e con nove giri lo Stige li rinserra. / Sino al cuore del Tartaro,
alle dimore della morte,
sino alle Eumenidi / dai capelli intrecciati con livide serpi
dilagò lo stupore; / muto con le tre bocche spalancate
rimase Cerbero / e insieme al vento
si arrestò la ruota di Issione. / Ma già Orfeo, eluso ogni pericolo,
tornava sui suoi passi / e libera Euridice
saliva a rivedere il cielo, / seguendolo alle spalle, / come Proserpina ordinava, / quando senza rimedio / una follia improvvisa lo travolse, / perdonabile, certo, / se sapessero i Mani perdonare: / fermo, ormai vicino alla luce, / vinto da amore, / la sua Euridice si voltò incantato a guardare. / Così gettata al vento la fatica, / infranta la legge del tiranno spietato, / tre volte si udì un fragore / nelle paludi dell'Averno.
E lei: 'Ahimè, Orfeo, / chi ci ha perduti, / quale follia?
Senza pietà il destino indietro mi richiama
e un sonno vela di morte i miei occhi smarriti.
E ora addio: intorno una notte fonda mi assorbe
e a te, non più tua, inerti tendo le mani'.
Disse e d'improvviso svanì nel nulla, / come fumo che si dissolve alla brezza dell'aria, / e non poté vederlo
mentre con la voglia inesausta di parlarle
abbracciava invano le ombre; / ma il nocchiero dell'Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude.
Che fare? Dove andarsene, perduta ormai, / perduta la sua sposa?
Con che pianto commuovere le ombre, / con che voce gli dei?
Certo, ormai fredda / lei navigava sulla barca dello Stige.
Dicono che per sette mesi / Orfeo piangesse senza requie
sotto una rupe a picco / sulla riva deserta dello Strímone,
e che narrasse le sue pene / sotto il gelo delle stelle,
ammansendo le tigri / e trascinando col canto le querce.
Così afflitto l'usignolo / lamenta nell'ombra di un pioppo la perdita dei figli, / che un bifolco crudele
con l'insidia ha tolto implumi dal nido; / piangendo nella notte,
ripete da un ramo il suo canto desolato / e riempie ogni luogo intorno / con la malinconia del suo lamento.
Nessun amore, / nessuna lusinga di nozze / gli piegarono il cuore.
Solo se ne andò tra i ghiacci del nord / e le nevi del Tànai,
sui monti di Tracia oppressi dal gelo eterno,
lamentando la morte di Euridice, / il dono inutile di Dite.
E le donne dei Cíconi offese da quel rimpianto,
durante le orge notturne dei riti di Bacco,
dispersero nei campi le sue membra dilaniate.
Ma anche allora, quando in mezzo ai gorghi
l'Ebro trascinava sull'onda / il capo spiccato dal suo collo d'avorio, / la voce ormai rappresa nella gola
'Euridice' chiamava, mentre l'anima fuggiva, / 'o misera Euridice'. E lungo tutto il fiume / le rive ripetevano 'Euridice'.
Questo disse Pròteo, e con un balzo / s'inabissò nel mare,
e là dove s'immerse / l'acqua girò in vortici di spuma.
Immobile al suo fianco, / Cirene si rivolse al figlio sbigottito:
'Figlio mio, sgombra la mente dai tristi pensieri.
Qui sta la causa d'ogni male, / per ciò le ninfe (e con loro Euridice / intrecciava danze nel segreto dei boschi)
mandarono alle api quello scempio. / Con umiltà, chiedendo pace, / offrigli doni e prega le Napee pietose:
ai voti concederanno il perdono / e deporranno l'ira.
Ma prima ti rivelerò il modo di pregarle.
Scegli fra tutti i tuoi, / che pascolano sulla cima verde del Liceo,
quattro tori dal corpo vigoroso, / i migliori, e altrettante giovenche / ancora non domate.
Alza per loro quattro are / vicino ai santuari delle dee
e dalle gole fa sgorgare il sangue sacro,
abbandonando i loro corpi nel folto del bosco.
Poi, al sorgere della nona aurora, / offri ad Orfeo, come dono funebre, / papaveri del Lete
e sacrifica una pecora nera; / torna quindi nel bosco,
e ad Euridice ormai placata / renderai onore immolando una giovenca'. Senza indugio Aristeo / segue i consigli della madre:
va al santuario, alza le are prescritte, / vi conduce quattro tori dal corpo vigoroso, / i migliori, e altrettante giovenche
ancora non domate;
poi al sorgere della nona aurora, / offre il dono funebre ad Orfeo e torna nel bosco.
E qui d'improvviso un prodigio incredibile appare: / fra le viscere disfatte degli animali / per tutto il ventre ronzano le api,
brulicando dai fianchi aperti, / in nugoli immensi ne escono
e, raccogliendosi sulla cima di un albero,
pendono a grappoli dalla curva dei rami.
Questo cantavo sulla pratica dei campi, / degli animali e intorno agli alberi, / mentre lontano sulle rive dell'Eufrate, / il grande Cesare folgora in guerra / e vincitore detta leggi ai popoli in attesa, / aprendosi la strada dell'Olimpo. / Vivevo allora nell'incanto di Partenope, / coltivando il piacere
di starmene in disparte, / io, Virgilio, io, che sul ritmo dei pastori
ho improvvisato, / cantando, con l'ardire della giovinezza,
Títiro all'ombra accogliente di un faggio.
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dal libro IV),
Orfeo ed Euridice (Georgiche,
Virgilio
EURIDICE
Nella mitologia greca, Euridice è una ninfa driade.
Sposò Orfeo e morì per il morso di un serpente in un prato mentre camminava o, secondo Virgilio e Ovidio, mentre correva tentando di sottrarsi alle attenzioni di Aristeo.
Orfeo, disperato, cantò canzoni così cariche di disperazione che tutte le ninfe e gli dei ne furono commossi. Gli fu consigliato di scendere nel regno dei morti per tentare di convincere Ade e Persefone a far tornare in vita la sua amata, così fece e le sue canzoni fecero persino piangere le Erinni.
Ade e Persefone si convinsero quindi a lasciare andare Euridice, a condizione che Orfeo camminasse davanti a lei e non si voltasse a guardarla finché non fossero usciti alla luce del sole; quando però Orfeo non udì più i passi della moglie si voltò per guardare se lo stesse ancora seguendo e vide l'anima di Euridice sprofondare nell'Ade, questa volta per sempre.
Sposò Orfeo e morì per il morso di un serpente in un prato mentre camminava o, secondo Virgilio e Ovidio, mentre correva tentando di sottrarsi alle attenzioni di Aristeo.
Orfeo, disperato, cantò canzoni così cariche di disperazione che tutte le ninfe e gli dei ne furono commossi. Gli fu consigliato di scendere nel regno dei morti per tentare di convincere Ade e Persefone a far tornare in vita la sua amata, così fece e le sue canzoni fecero persino piangere le Erinni.
Ade e Persefone si convinsero quindi a lasciare andare Euridice, a condizione che Orfeo camminasse davanti a lei e non si voltasse a guardarla finché non fossero usciti alla luce del sole; quando però Orfeo non udì più i passi della moglie si voltò per guardare se lo stesse ancora seguendo e vide l'anima di Euridice sprofondare nell'Ade, questa volta per sempre.
ORFEO
La storia
Secondo le più antiche fonti Orfeo è nativo della Tracia, terra lontana e misteriosa, nella quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata l'esistenza di sciamani che fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei morti, dotati di poteri magici operanti sul mondo della natura, capaci di provocare uno stato di trance tramite la musica.
Figlio della Musa Calliope e del sovrano tracio Eagro, o, secondo altre versioni, del dio Apollo, appartiene alla generazione precedente l'epoca della religione greca classica.
Gli è spesso associato, come figlio o allievo, Museo.
Egli fonde in sé gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il pupillo del dio Apollo, che ne protegge le spoglie, è un eroe culturale, benefattore del genere umano, promotore delle arti umane e maestro religioso; in quanto figura dionisiaca, egli gode di un rapporto simpatetico con il mondo naturale, di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della natura, è dotato di una conoscenza intuitiva e nella vicenda stessa vi sono evidenti analogie con la figura di Dioniso per il riscatto dagli inferi della Kore.
La letteratura, d'altra parte, mostra la figura di Orfeo anche in contrasto con le due divinità: la perdita dell'amata Euridice sarebbe da rintracciarsi nella colpa di Orfeo di aver assunto prerogative del dio Apollo di controllo della natura attraverso il canto; tornato dagli inferi, Orfeo abbandona il culto del dio Dioniso rinunciando all'amore eterosessuale, "inventando" così per la prima volta nella storia l'amore omosessuale. In tale contesto si innamora profondamente di Calais, figlio di Borea, e insegna l'amore omosessuale ai Traci. Per questo motivo, le baccanti della Tracia, seguaci del dio, furenti per non essere più considerate dai loro mariti, lo assalgono e lo fanno a pezzi (vedi: Fanocle). Nella versione del mito contenuta nelle Georgiche di Virgilio la causa della sua morte è invece da ricercarsi nella rabbia delle baccanti per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la morte di Euridice.
Le imprese di Orfeo
Ragazza tracia con la testa di Orfeo (1865) di Gustave MoreauSecondo la mitologia classica, Orfeo prese parte alla spedizione degli Argonauti: quando la nave Argo passò accanto all'isola delle Sirene, i marinai furono irretiti dal loro canto, ma Orfeo li salvò intonando un canto ancora più melodioso che ruppe l'incantesimo.
Ma la sua fama è legata soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide unito alla ninfa Euridice: Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, amava perdutamente Euridice e, sebbene il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni fino a che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la uccise col suo morso. Orfeo penetrò allora negli inferi incantando Caronte con la sua musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano dell'Ade. Persefone, commossa dal suo dolore e sedotta dal suo canto, persuase Ade a lasciare che Euridice tornasse sulla terra. Ade accettò, ma ad un patto: Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice per tutto il cammino fino alla porta dell'Ade senza voltarsi mai all'indietro. Esattamente sulla soglia degli Inferi, e credendo di esser già uscito dal Regno dei Morti, Orfeo non riuscì più a resistere al dubbio e si voltò, per vedere Euridice scomparire all'istante e tornare tra le Tenebre per l'eternità. Orfeo, secondo il mito, da allora rifiutò il canto e la gioia, offendendo le Menadi, seguaci di Dioniso che lo uccisero e lo dilaniarono, si nutrirono di parte del suo corpo e ne gettarono la testa nell'Erebo. La testa scese fino al mare e da qui all'isola di Lesbo, dove la testa fu sepolta nel santuario di Apollo. Il corpo venne seppellito dalle Muse ai piedi dell'Olimpo. La sua lira venne invece infissa nel cielo, e formò una costellazione.
Un'altra versione, più drammatica e commovente, parte dalle stesse premesse: Euridice muore uccisa da un serpente mentre scappa dalle grinfie di Aristeo. Orfeo decide allora di andarla a riprendere. Dunque, trova a Cuma la discesa per gli Inferi. Giunto lì incanta Caronte, Cerbero e Persefone. Ade acconsente a patto che egli non si volti fino a che entrambi non siano usciti dal regno dei morti. Insieme ad Hermes (che deve controllare che Orfeo non si volti), si incamminano ed iniziano la salita. Euridice, non sapendo del patto, continua a chiamare in modo malinconico Orfeo, pensa che lui non la guardi perché è brutta, ma lui, con grande dolore, deve continuare imperterrito senza voltarsi. Appena vede un po' di luce, Orfeo, capisce di essere uscito dagli Inferi e si volta. Purtroppo, però, Euridice ha accusato un dolore alla caviglia morsa dal serpente e, dunque, si è attardata... Quindi, Orfeo ha trasgredito la condizione posta da Ade. Solo ora Euridice capisce e, all'amato, sussurra parole drammatiche e struggenti: «Grazie, amore mio, hai fatto tutto ciò che potevi per salvarmi». Si danno poi la mano, consapevoli che quella sarà l'ultima volta. Drammatica anche la presenza di Hermes che, con volto triste ed espressione compassionevole, trattiene Euridice per una mano, perché ha promesso ad Ade di controllare ed è ciò che deve fare. Orfeo vede ora scomparire Euridice e si dispera, perché sa che ora non la vedrà più. Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita partecipare ad un'orgia dionisiaca. Per tener fede anche lui a ciò che ha detto, rinuncia, ed è proprio questo che porta anche lui alla morte: le Baccanti, infuriate, lo sbranano e gettano la sua testa nel fiume Evros, insieme alla sua lira. La testa cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus, toccato da questo evento commovente, prende la lira e la mette in cielo formando una costellazione.
Evoluzione del mito
« Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi "sia finita" e mi voltai »
(Orfeo ne L'inconsolabile di Cesare Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947)
Orfeo e gli animali. Mosaico romano di età imperiale. Palermo, Museo archeologico.Il mito di Orfeo nasce forse come mito di fertilità, come è possibile desumere dagli elementi del riscatto della Kore dagli inferi e dello σπαραγμος (dal greco antico: corpo fatto a pezzi) che subisce il corpo di Orfeo, elementi che indicano il riportare la vita sulla terra dopo l'inverno.
I riferimenti al mito nella letteratura greca arcaica e classica sono pochi, tanto che alcuni degli elementi essenziali della vicenda compariranno e verranno approfonditi solo dalla letteratura latina in poi. Due autori greci che si sono occupati del mito di Orfeo proponendo due diverse versioni di esso sono il filosofo Platone e il poeta Apollonio Rodio.
Nel discorso di Fedro, contenuto nell'opera "Simposio", Platone inserisce Orfeo nella schiera dei sofisti, poiché utilizza la parola per persuadere, non per esprimere verità; egli agisce nel campo della doxa, non dell'episteme. Per questa ragione gli viene consegnato dagli dei degli inferi un phasma di Euridice; inoltre, non può essere annoverato tra la schiera dei veri amanti poiché il suo eros è falso come il suo logos.
OrfeoLa sua stessa morte ha carattere anti-eroico poiché ha voluto sovvertire le leggi divine penetrando vivo nell'Ade, non osando morire per amore. Il phasma di Euridice simboleggia l'inadeguatezza della poesia a rappresentare e conoscere la realtà, conoscenza che può essere conseguita solo tramite le forme superiore dell'eros.
Apollonio Rodio inserisce il personaggio di Orfeo nelle Argonautiche presentandolo come un eroe culturale, fondatore di una setta religiosa. il ruolo attribuito ad Orfeo esprime la visione che del poeta hanno gli alessandrini: attraverso la propria arte, intesa come abile manipolazione della parola, il poeta è in grado di dare ordine alla materia e alla realtà; a tal proposito è emblematico l'episodio nel quale Orfeo riesce a sedare una lite scoppiata tra gli argonauti cantando una personale cosmogonia.
Secondo le più antiche fonti Orfeo è nativo della Tracia, terra lontana e misteriosa, nella quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata l'esistenza di sciamani che fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei morti, dotati di poteri magici operanti sul mondo della natura, capaci di provocare uno stato di trance tramite la musica.
Figlio della Musa Calliope e del sovrano tracio Eagro, o, secondo altre versioni, del dio Apollo, appartiene alla generazione precedente l'epoca della religione greca classica.
Gli è spesso associato, come figlio o allievo, Museo.
Egli fonde in sé gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il pupillo del dio Apollo, che ne protegge le spoglie, è un eroe culturale, benefattore del genere umano, promotore delle arti umane e maestro religioso; in quanto figura dionisiaca, egli gode di un rapporto simpatetico con il mondo naturale, di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della natura, è dotato di una conoscenza intuitiva e nella vicenda stessa vi sono evidenti analogie con la figura di Dioniso per il riscatto dagli inferi della Kore.
La letteratura, d'altra parte, mostra la figura di Orfeo anche in contrasto con le due divinità: la perdita dell'amata Euridice sarebbe da rintracciarsi nella colpa di Orfeo di aver assunto prerogative del dio Apollo di controllo della natura attraverso il canto; tornato dagli inferi, Orfeo abbandona il culto del dio Dioniso rinunciando all'amore eterosessuale, "inventando" così per la prima volta nella storia l'amore omosessuale. In tale contesto si innamora profondamente di Calais, figlio di Borea, e insegna l'amore omosessuale ai Traci. Per questo motivo, le baccanti della Tracia, seguaci del dio, furenti per non essere più considerate dai loro mariti, lo assalgono e lo fanno a pezzi (vedi: Fanocle). Nella versione del mito contenuta nelle Georgiche di Virgilio la causa della sua morte è invece da ricercarsi nella rabbia delle baccanti per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la morte di Euridice.
Le imprese di Orfeo
Ragazza tracia con la testa di Orfeo (1865) di Gustave MoreauSecondo la mitologia classica, Orfeo prese parte alla spedizione degli Argonauti: quando la nave Argo passò accanto all'isola delle Sirene, i marinai furono irretiti dal loro canto, ma Orfeo li salvò intonando un canto ancora più melodioso che ruppe l'incantesimo.
Ma la sua fama è legata soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide unito alla ninfa Euridice: Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, amava perdutamente Euridice e, sebbene il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni fino a che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la uccise col suo morso. Orfeo penetrò allora negli inferi incantando Caronte con la sua musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano dell'Ade. Persefone, commossa dal suo dolore e sedotta dal suo canto, persuase Ade a lasciare che Euridice tornasse sulla terra. Ade accettò, ma ad un patto: Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice per tutto il cammino fino alla porta dell'Ade senza voltarsi mai all'indietro. Esattamente sulla soglia degli Inferi, e credendo di esser già uscito dal Regno dei Morti, Orfeo non riuscì più a resistere al dubbio e si voltò, per vedere Euridice scomparire all'istante e tornare tra le Tenebre per l'eternità. Orfeo, secondo il mito, da allora rifiutò il canto e la gioia, offendendo le Menadi, seguaci di Dioniso che lo uccisero e lo dilaniarono, si nutrirono di parte del suo corpo e ne gettarono la testa nell'Erebo. La testa scese fino al mare e da qui all'isola di Lesbo, dove la testa fu sepolta nel santuario di Apollo. Il corpo venne seppellito dalle Muse ai piedi dell'Olimpo. La sua lira venne invece infissa nel cielo, e formò una costellazione.
Un'altra versione, più drammatica e commovente, parte dalle stesse premesse: Euridice muore uccisa da un serpente mentre scappa dalle grinfie di Aristeo. Orfeo decide allora di andarla a riprendere. Dunque, trova a Cuma la discesa per gli Inferi. Giunto lì incanta Caronte, Cerbero e Persefone. Ade acconsente a patto che egli non si volti fino a che entrambi non siano usciti dal regno dei morti. Insieme ad Hermes (che deve controllare che Orfeo non si volti), si incamminano ed iniziano la salita. Euridice, non sapendo del patto, continua a chiamare in modo malinconico Orfeo, pensa che lui non la guardi perché è brutta, ma lui, con grande dolore, deve continuare imperterrito senza voltarsi. Appena vede un po' di luce, Orfeo, capisce di essere uscito dagli Inferi e si volta. Purtroppo, però, Euridice ha accusato un dolore alla caviglia morsa dal serpente e, dunque, si è attardata... Quindi, Orfeo ha trasgredito la condizione posta da Ade. Solo ora Euridice capisce e, all'amato, sussurra parole drammatiche e struggenti: «Grazie, amore mio, hai fatto tutto ciò che potevi per salvarmi». Si danno poi la mano, consapevoli che quella sarà l'ultima volta. Drammatica anche la presenza di Hermes che, con volto triste ed espressione compassionevole, trattiene Euridice per una mano, perché ha promesso ad Ade di controllare ed è ciò che deve fare. Orfeo vede ora scomparire Euridice e si dispera, perché sa che ora non la vedrà più. Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita partecipare ad un'orgia dionisiaca. Per tener fede anche lui a ciò che ha detto, rinuncia, ed è proprio questo che porta anche lui alla morte: le Baccanti, infuriate, lo sbranano e gettano la sua testa nel fiume Evros, insieme alla sua lira. La testa cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus, toccato da questo evento commovente, prende la lira e la mette in cielo formando una costellazione.
Evoluzione del mito
« Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi "sia finita" e mi voltai »
(Orfeo ne L'inconsolabile di Cesare Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947)
Orfeo e gli animali. Mosaico romano di età imperiale. Palermo, Museo archeologico.Il mito di Orfeo nasce forse come mito di fertilità, come è possibile desumere dagli elementi del riscatto della Kore dagli inferi e dello σπαραγμος (dal greco antico: corpo fatto a pezzi) che subisce il corpo di Orfeo, elementi che indicano il riportare la vita sulla terra dopo l'inverno.
I riferimenti al mito nella letteratura greca arcaica e classica sono pochi, tanto che alcuni degli elementi essenziali della vicenda compariranno e verranno approfonditi solo dalla letteratura latina in poi. Due autori greci che si sono occupati del mito di Orfeo proponendo due diverse versioni di esso sono il filosofo Platone e il poeta Apollonio Rodio.
Nel discorso di Fedro, contenuto nell'opera "Simposio", Platone inserisce Orfeo nella schiera dei sofisti, poiché utilizza la parola per persuadere, non per esprimere verità; egli agisce nel campo della doxa, non dell'episteme. Per questa ragione gli viene consegnato dagli dei degli inferi un phasma di Euridice; inoltre, non può essere annoverato tra la schiera dei veri amanti poiché il suo eros è falso come il suo logos.
OrfeoLa sua stessa morte ha carattere anti-eroico poiché ha voluto sovvertire le leggi divine penetrando vivo nell'Ade, non osando morire per amore. Il phasma di Euridice simboleggia l'inadeguatezza della poesia a rappresentare e conoscere la realtà, conoscenza che può essere conseguita solo tramite le forme superiore dell'eros.
Apollonio Rodio inserisce il personaggio di Orfeo nelle Argonautiche presentandolo come un eroe culturale, fondatore di una setta religiosa. il ruolo attribuito ad Orfeo esprime la visione che del poeta hanno gli alessandrini: attraverso la propria arte, intesa come abile manipolazione della parola, il poeta è in grado di dare ordine alla materia e alla realtà; a tal proposito è emblematico l'episodio nel quale Orfeo riesce a sedare una lite scoppiata tra gli argonauti cantando una personale cosmogonia.
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